Tre anni e mezzo di missioni MOAS mi hanno offerto numerose occasioni per comprendere meglio l’impatto della migrazione forzata su bambini, donne e uomini. In mare e sulla terraferma ho toccato con mano le conseguenze dei flussi migratori non controllati e gestiti dalla criminalità che sfrutta l’assenza di alternative legali e sicure per offrire rischiose vie di salvezza ai più disperati.

Stando ai dati UNHCR, donne e ragazze costituiscono il 50% delle comunità di rifugiati, sfollati interni e apolidi a livello mondiale; oltre a patire discriminazioni e marginalizzazioni in virtù del loro sesso, sono doppiamente vulnerabili. Il rischio di violenze, abusi e schiavitù sessuale è altissimo fra le donne che scappano da conflitti, persecuzioni o povertà estrema, soprattutto qualora intraprendano il viaggio da sole o senza una figura maschile.

Fra i Rohingya, minoranza apolide musulmana e fortemente discriminata dal governo del Myanmar, questa percentuale è anche più elevata, anche se sono i bambini a rappresentare la fetta più numerosa, arrivando fino al 60% dell’intera comunità rifugiatasi in Bangladesh.

Da quando lo scorso ottobre abbiamo avviato due centri medici -Aid Station- per l’assistenza primaria in Bangladesh a Shamlapur e Unchiprang, sono state tante le donne che ho incontrato e che hanno condiviso con me le loro storie e le loro paure per il futuro, oltre alla speranza di trovare finalmente la pace.

In seguito alla visita del Santo Padre a dicembre 2017, una donna Rohingya della delegazione che lo ha incontrato ha ricevuto assistenza medico-sanitaria e supporto psicologico dal nostro team dopo essere stata vittima di stupro da parte di un membro dell’esercito birmano. Proprio lo stupro è ormai riconosciuto come una vera e propria arma di guerra che, insieme alle continue vessazioni e discriminazioni ai danni dei Rohingya insediati nel Rakhine settentrionale (Myanmar), ha costretto quasi 700mila persone a riversarsi in Bangladesh.

Tutte le storie che ho ascoltato hanno un intollerabile carico di violenza che non termina nemmeno una volta lasciato il paese: donne e ragazze sono infatti le prime vittime dei trafficanti in cerca di facili prede da inserire nel mercato della prostituzione, venendo adescate durante il viaggio o all’interno dei campi dove trovano riparo. Qui, complici il caos e il sovraffollamento, criminali senza scrupoli si aggirano approfittando di una distrazione o sfruttando l’estrema miseria delle famiglie che spesso faticano a ricevere adeguato supporto alimentare. Lo scorso inverno, Jhuma, una donna Rohingya di 40 anni fuggita in Bangladesh con otto figli dopo aver visto uccidere il marito, mi racconta le vessazioni sopportate in Myanmar, mentre Jharu mi spiega come sia difficile vivere in un campo sovraffollato senza un marito, con due figlie adolescenti e una di soli otto anni che vanno protette continuamente dal rischio di stupri o rapimenti. Oltre alla prostituzione, inoltre, molte donne e ragazze vengono sequestrate e vendute come spose o domestiche in altri paesi limitrofi dove rimangono intrappolate in una nuova spirale di violenza.

Donne e bambini rappresentano fino al 60% della popolazione presente nei campi profughi Rohingya. Qui alcune donne e bambini ricevono assistenza dal nostro staff medico

Ma, se in qualche modo è possibile ricostruire a grandi linee rischi e pericoli sulla terraferma, ancora meno si sa di quanto avviene in mare.

La rotta del Mare delle Andamane, stando alle stime UNHCR riportate da OIM in “Fatal Journeys, Volume 3, Part 2”, ha visto circa 170mila partenze dal Golfo del Bengala fra Rohingya e bengalesi in un arco temporale compreso fra il 2012 e il 2015. Già nel 2015, all’apice della crisi del Mare delle Andamane, l’OIM richiamava l’attenzione sui tragici viaggi che venivano intrapresi lungo questa rotta, il cui tasso di mortalità ufficiale è stimato intorno all’1.2%, benché si calcoli che sia molto più alto.

Sempre ricorrendo a dati UNHCR, unica organizzazione ad aver raccolto dati sulla questione, riportati nel sovracitato report dell’OIM, “il tasso di mortalità per chi viaggia attraverso il Mare delle Andamane dal Golfo del Bengala dal 2013 al 2015 è stato doppio rispetto a quello registrato nello stesso periodo fra rifugiati e richiedenti asilo che viaggiano lungo il Mediterraneo”.

In merito alle condizioni delle donne, ai già noti rischi di violenza e schiavitù sessuale, si aggiungono anche molti casi di rapimento finalizzato all’estorsione di un riscatto il cui mancato pagamento è fatale per la vittima.

Partendo dalle più recenti notizie di naufragi e dall’evidente mancanza di dati certi sugli attraversamenti via mare lungo la rotta delle Andamane, con MOAS abbiamo deciso di intraprendere una missione esplorativa per documentare lo scenario SAR dell’area col duplice scopo di comprendere meglio ciò che avviene e di agire, qualora ci fosse la necessità di evitare morti in mare.

Come possiamo tutelare i più vulnerabili, se non abbiamo nemmeno dati certi per comprendere dove e come intervenire?

Se non sappiamo quante persone prendono il largo su imbarcazioni insicure, come pensiamo di salvarle?

Se non conosciamo la portata di questo fenomeno, come possiamo anticipare e prevenire ulteriori peggioramenti, salvaguardando i diritti umani costantemente violati?

Dobbiamo smettere di agire secondo il criterio della prossimità e rivolgere lo sguardo all’intero scenario geopolitico attuale, prediligendo un approccio globale alla migrazione.

Come dimostrato dai circa 9 mila bengalesi giunti sulle nostre coste nel 2017, nessun luogo è troppo lontano per chi fugge da guerre, povertà estrema e persecuzioni. Non possiamo più illuderci di affrontare la migrazione innalzando muri o recinzioni di filo spinato. Il primo passo è certamente comprendere lo scenario operativo in cui agire, partendo da dati affidabili ed indipendenti, e coordinare le varie realtà sul campo dalle autorità di sicurezza nazionale alle organizzazioni umanitarie per costruire un percorso di crescita e pace. Per questo motivo, MOAS è orgogliosa di condurre una nuova missione di osservazione indipendente della durata di un mese, parallelamente al nostro incessante lavoro sul campo per garantire assistenza medico-sanitaria alle comunità più vulnerabili di Rohingya e bengalesi nell’area di Cox’s Bazar.