Dal 10 al 12 Settembre sono stata invitata a partecipare all’evento Strade di Pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio nelle città di Münster e Osnabrück in Germania. Queste due città hanno una lunga tradizione come simbolo di pace, in particolare inter-religiosa, da quando nel 1648 fu siglata la pace di Vestfalia che mise fine alla lunga guerra dei trent’anni e ratificò la fine delle guerre di religione in Europa, allargando l’ambito della libertà di coscienza.

Proprio nella speranza di rilanciare un universale messaggio di pace e fratellanza, la Comunità di Sant’Egidio ha tenuto degli incontri mirati a discutere un tema così delicato e attuale in un mondo dove i conflitti aumentano insieme a preoccupanti fenomeni di intolleranza e razzismo. Gli incontri hanno unito esponenti delle varie comunità religiose, autorità politiche e organizzazioni che si sono distinte per il loro impegno a rendere la nostra società condivisa più accogliente e a difendere i diritti dei più vulnerabili.

La lotta al terrorismo, infatti, non può prescindere da una profonda comprensione dei fattori che lo generano e da un impegno ad ogni livello per creare percorsi di integrazione per chi è costretto a fuggire da situazioni di estrema violenza o povertà.

Sono stata felice di poter raccontare l’esperienza di MOAS, che dalla sua creazione ha dimostrato come la società civile svolga un ruolo cruciale per alleviare la sofferenza di chi è costretto ad abbandonare il proprio paese in cerca della salvezza e di un futuro migliore per sé e per i propri figli.

È stato importante ripercorrere le missioni svolte dall’Agosto 2014 all’Agosto 2017 spiegando anche come sia mutato il contesto in cui abbiamo operato e che ho verificato in prima persona partecipando alle missioni SAR.

Sant’Egidio Copyright

In media dall’Agosto 2014 fino al Giugno 2017, infatti, il numero di persone ammassate su imbarcazioni fatiscenti è quasi raddoppiato così come i casi di partenze a sciame dalle coste libiche, mentre la qualità dei barconi di legno e dei gommoni è peggiorata al punto che spesso riescono a stento a raggiungere le acque internazionali. In alcuni casi, le imbarcazioni affondano prima ancora di poter essere assistite o vengono intercettate dalla Guardia Costiera Libica e riportate indietro nei centri di detenzioni sparsi nel paese.

Anche dal punto di vista medico c’è stata una escalation di orrori che lasciano cicatrici nel corpo e nell’anima. Sempre più frequenti sono le ferite da arma da fuoco oltre alle ustioni dovute alla miscela di acqua salata e carburante di pessima qualità. Queste ferite ormai sono state soprannominate “malattia da gommone” proprio perché vengono riscontrate sulle persone salvate dai gommoni, soprattutto le donne che spesso si trovano al centro.

Tuttavia, attualmente sono troppe le domande senza risposta e troppi i dubbi su chi è intrappolato o viene riportato in Libia nei centri di detenzione. Per questo MOAS ha deciso di concludere la sua missione nel Mediterraneo Centrale. MOAS, infatti, non ha voluto diventare parte di una strategia in cui nessuno presta attenzione a chi ha bisogno di aiuto, ma si concentra solo sull’impedire che le persone arrivino sulle coste europee senza alcun riguardo per il loro destino mentre sono intrappolate dall’altra parte del mare.

Questo non vuol dire che MOAS si arrenderà.

Ma porteremo speranza nelle aree dove serve maggiormente.

In quest’occasione oltre a raccontare i risultati raggiunti e le sfide affrontate, ho potuto illustrare i prossimi sviluppi della missione MOAS in seguito alla decisione di accogliere nuovamente l’appello di Papa Francesco per proteggere i nostri fratelli e sorelle Rohingya, una minoranza musulmana in estremo bisogno di assistenza umanitaria. Per questo, abbiamo deciso di riposizionare la nostra nave, Phoenix, nel Golfo del Bengala e fornire aiuti ed assistenza umanitaria nei campi profughi dell’area di Cox’s Bazar, in Bangladesh.

Moas Copyright

Fin dallo scorso anno MOAS sta monitorando questa situazione nel Sud-Est asiatico e dopo aver visitato alcuni centri dove vivono i Rohingya e averli intervistati abbiamo reso pubblico un report che potrete trovare sul sito della nostra organizzazione sorella XChange. Sulla base del know-how sviluppato, abbiamo deciso che è arrivato il momento di agire e tutelare una minoranza dimenticata in un’area remota.

Non possiamo illuderci di vivere in pace, se i diritti umani fondamentali vengono negati a persone estremamente vulnerabili. E, forti di questa convinzione, ci impegniamo già da oltre un anno per l’apertura di canali umanitari sicuri e legali che consentano l’accesso al suolo europeo in modo sicuro e smantellino il fiorente business dei trafficanti di morte, mettendo fine ai flussi migratori fuori controllo.

Dalla creazione del MOAS abbiamo salvato ed assistito oltre 40mila bambini, donne e uomini e siamo determinati a mantenere viva la speranza dove serve maggiormente.

Perché nessuno merita di morire in mare. Ma nemmeno sulla terraferma.

Ancora una volta, ci impegniamo ad essere in prima linea guidati dal coraggio, dalla misericordia e dalla fratellanza universale che ci impediscono di restare a guardare mentre soffiano questi venti xenofobi alimentati dai media.

Alla fine degli incontri, è stato presentato un appello di pace che potete leggere cliccando qui.

Le religioni non possono volere altro che la pace, operose nella preghiera, pronte a piegarsi sui feriti della vita e sugli oppressi della storia, vigili nel contrastare l’indifferenza e nel promuovere vie di comunione

Dal messaggio di Papa Francesco all’Incontro Internazionale Paths of Peace, 10 settembre 2017