Noi conosciamo e facciamo il nostro lavoro, ma vogliamo fare di più, vogliamo conoscere queste persone. Credo che questa sia la parte migliore

Questa frase viene dal documentario “Pescatori di Uomini” dove, insieme a mio marito Christopher e nostra figlia Maria Luisa, raccontiamo la genesi di MOAS. Il documentario ripercorre, infatti, le fasi che hanno accompagnato MOAS dalla sua creazione a livello puramente concettuale fino alle attività in mare nel Mediterraneo e nell’Egeo.

In quella frase è racchiuso un po’ il senso del nostro agire che, di fatto, non si limita alla missione umanitaria dedicata a salvare vite in mare e alle cure post-soccorso. Coi nostri equipaggi non assistiamo soltanto imbarcazioni in difficoltà che rischiano di essere inghiottite dal mare.

I nostri team non soccorrono solamente persone di ogni età, provenienza, lingua, cultura o professione religiosa accomunate dal triste ed ingiusto destino di trovarsi su un barcone sovraffollato e pericolante.

Salvando quelle persone, salviamo le loro storie.

E salvando le loro storie, preserviamo la memoria di chi ha affrontato questo lungo viaggio.

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Ma c’è dell’altro.

Le loro storie, raccontate nei momenti di quiete fra il soccorso e le prime cure mediche, sono una finestra sul mondo. Anzi, su realtà diverse del nostro  mondo: una per ogni essere umano che ce le racconta.

La parte migliore è ricostruire col dialogo una apparente normalità: non siamo più persone che salvano e persone che sono state salvate, ma esseri umani uniti dal desiderio reciproco di conoscersi e dimenticare, per un momento, le circostanze tragiche del loro primo incontro.

Siamo sul ponte della Phoenix, ma potremmo essere ovunque.

Siamo nella clinica della Phoenix mentre tentiamo di rianimare un bambino. Il dolore di sua madre è identico a quello di una madre al pronto soccorso dietro casa.

Decidere di fondare MOAS è stata un’avventura che continua a rinnovarsi ogni giorno: un’idea pionieristica che ai più sembrava folle e che invece si è rivelata straordinaria a tal punto da essere replicata. Nonostante le critiche e l’odio a cui ci siamo esposti, al di là dei polveroni mediatici che ci hanno travolti sottraendoci inutilmente energia, rimane la convinzione di aver fatto l’unica cosa logica da fare: salvare vite.

Però, la nostra missione non termina una volta sbarcate le persone soccorse al porto perché, ascoltando storie di realtà lontane, impariamo a conoscerle. Non è semplice ascoltare le loro storie che parlano di guerra, morte, tortura e violenze sessuali.

Le parole possono ferire come lame, eppure in quelle stesse parole -sotto il dolore- pulsa la speranza di persone coraggiose che non si arrendono alla fatalità dei conflitti.

Ascoltare una minorenne che racconta un viaggio atroce attraverso il deserto manda in frantumi tutte le certezze che coltiviamo noi che siamo nati nella parte giusta del mondo.

Sentire la storia di un padre che ha per giorno ha portato in braccio il figlio paralitico solo per poterlo curare mette in crisi l’umano senso di giustizia. Guardare negli occhi una madre che allatta la propria bambina mentre descrive il terrore di aver partorito da sola in una prigione libica, mi spacca il cuore.

Eppure, la consapevolezza che quei momenti di confidenze e racconti siano la migliore cura per un’anima che soffre predispone ogni membro dell’equipaggio MOAS all’ascolto.

Ascoltando la voce delle persone salvate, restituiamo loro dignità e valore e diamo un senso più profondo alle nostre missioni SAR: un senso che risiede nella meraviglia di scoprire altri esseri umani, altre realtà, altre storie.

E la meraviglia è sempre l’inizio della conoscenza.

«Non credi forse che la conoscenza o, meglio ancora, l’intuizione delle meraviglie nella nostra vita sia data a taluni come un senso speciale?»
(Ernst T.A. Hoffmann)

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You know your work, but you want to engage them, you want to know them, and I think this is the best part

This is a quote from the MOAS documentary, “Fishers of Men”, where I talk about MOAS’ inception together with my husband Christopher and our daughter Maria Luisa. Throughout the documentary we explore the steps from MOAS’ creation as an idea to its rescue missions in the Mediterranean and Aegean Sea.

That quote sums up our vision, which goes beyond our humanitarian activity that is dedicated to saving lives at sea and providing post-rescue care. Our teams do not only assist vessels in distress, before it is too late.

Our teams do not simply rescue people of different age, origin, language, culture or religion, who share the bitter and unfair fate of being on a jam-packed and unseaworthy vessel.

By rescuing those people, we rescue their stories.

And by rescuing their stories, we preserve the memories of those who have faced this long journey.

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But there is much more than this.

We listen to their stories during the quiet moments as we deliver post-rescue care, and they are a window opening on our world. They are windows that open on many different realities of our world: one for each human being.

The best part is creating a brief sense of normality through our dialogue: we are no longer the people who rescue, and who are rescued. We are human beings who wish to know each other, and to forget for a while the tragic circumstances of our first meeting.

We sit on the deck of the Phoenix, but we could be anywhere.

We are in the clinic on board the Phoenix trying to resuscitate a toddler; his mother’s pain is the same pain felt by every other mother all over the world.

MOAS’ inception has been and still is an adventure: a pioneering idea, which many had labeled as crazy, but turned out to be so extraordinary that it has been replicated by others. Despite hatred and criticism, beyond fake news that has uselessly absorbed our energy, we deeply believe that we have done the only reasonable thing: saving lives.

Nevertheless, our mission does not stop after people disembark because by listening to their stories about their distant realities we learn to know them. It is not easy to listen to their stories about war, death, torture and sexual violence.

Words can hurt like blades. But inside those words, under the pain, their hearts, which are those of hopeful of courageous people – who do not surrender to the fate of conflict and violence – are beating.

While listening to an under-age girl talking about her atrocious journey through the desert, all our certainties as people born in the ‘right’ part of the world are dashed.

While listening to a father who must carry his paralysed son in his arms just to be able to treat his disease, our idea of justice is challenged.

When I look into the eyes of a mother breastfeeding her daughter and describing how terrified she was during the delivery in a Libyan jail with no care or assistance, my heart breaks.

However, each MOAS crew member is aware that those confidences and tales are the best therapy for a soul in pain, and in light of this we are all ready to listen to them.

While listening to the voices of those rescued at sea, we give them back dignity and attention as well as we give a deeper meaning to our SAR missions: a meaning lying in the wonder that lies in getting to know other human beings, realities and stories.

And wonder is always the beginning of knowledge.