“Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave” Etty Hillesum
Ultimamente ho pensato spesso a questa frase tratta dal diario di Etty Hillesum, scrittrice olandese che fu uccisa dalla furia nazista in quanto ebrea nel 1943. L’ho pensata mentre ero ancora sulla Phoenix in mare a salvare il maggior numero di persone possibile, l’ho pensata durante i salvataggi più difficili quando la sottile linea fra la vita e la morte si riduceva a una manciata di secondi e quando con MOAS abbiamo ricevuto attacchi volti a screditare solidarietà e fratellanza. La continuo a pensare ogni volta che cammino fra gli accampamenti di fortuna dei Rohingya e nei villaggi delle comunità bengalesi che li ospitano, condividendo coi nuovi arrivati la propria terra e le proprie risorse.
Insieme agli equipaggi SAR e ai team medici MOAS da anni tocco con mano il risultato della barbarie di uomini e donne che dimenticano la loro stessa umanità per cedere all’odio, alla violenza e all’assenza di empatia. Le conseguenze dei conflitti civili, delle guerre fra stati o fazioni, delle siccità o delle carestie dovute a fenomeni climatici estremi sono sotto i nostri occhi, ma queste conseguenze non rimangono dietro lo schermo del cellulare, della tv o del computer: sono lì, davanti a me con le loro storie di dolore, emarginazione, ma anche di speranza e gioia per aver raggiunto la salvezza.
Ricordare l’apertura dei cancelli di Auschwitz, un luogo infernale divenuto simbolo dello sterminio del popolo ebreo da parte della Germania nazista, è fondamentale tanto quanto incentivare le scuole di ogni livello e la società ad una riflessione sui pericoli che oggi la affliggono. Il ricordo della Giornata della Memoria rischia di trasformarsi in un vuoto esercizio di retorica, se non siamo in grado di comprendere le insidie che si moltiplicano nella nostra comunità globale. Bisogna essere in grado di riconoscere le nuove forme di intolleranza perché l’odio, al di là delle forme che assume, ha dentro di sé un nucleo comune costituito dalle sue vittime: si scelgono una o più vittime e vengono rese il capro espiatorio delle storture contemporanee. Durante il nazismo erano soprattutto gli ebrei, in Bosnia furono i musulmani e oggi sono i moltissimi perseguitati della terra, per lo più migranti e rifugiati.
Invece di provare empatia e compassione per chi ha perso tutto e rischia la vita in cerca di un futuro migliore, invece di usare tutti gli strumenti del diritto a nostra disposizione per tutelare chi ne ha bisogno ci lasciamo tentare dalla vuota propaganda che con le fake news scredita la solidarietà e denigra chi sopravvive a viaggi infernali. A 73 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, ne restano molti altri ancora da spalancare per liberare le ingiuste vittime dei nostri tempi e seminare una pace duratura. Ma i cancelli più difficili da abbattere sono quelli dentro di noi ogni volta che decidiamo di voltare lo sguardo altrove dando spazio all’indifferenza.