In questi giorni, con l’approssimarsi della Giornata Internazionale delle Donne non ho potuto fare a meno di ricordare tutte le donne che ho conosciuto nella mia vita. Indipendentemente dal momento e dal luogo in cui le ho incontrate la prima immagine che mi è venuta in mente è quella di una fenice. Nel contesto mitologico, sia della cultura greco-romana che di quella araba e orientale, la fenice è una creatura di fuoco che rinasce con grande coraggio, maestosa e forte, dalle ceneri della distruzione.
La resilienza della fenice è quella delle donne che ho incontrato e che continuo ad incontrare ogni giorno nella vita quotidiana e durante le missioni con MOAS.
Ricordo i racconti delle donne che avevano affrontato drammatiche esperienze, mesi nel deserto, traversate in mare, alcune di loro con i propri figli, altre aiutando i figli delle altre compagne di viaggio, alcune in stato di gravidanza, e quasi tutte oggetto di ogni tipo di violenza, fisica e verbale. Donne che non si sono arrese ma hanno proseguito passo dopo passo con la speranza di riprendere in mano la propria vita e di dare un futuro ai figli.
Non ci sono parole per descrivere quei momenti in cui la disperazione, la paura e il pianto si sono trasformati in un sorriso quando, a seguito dell’aiuto ricevuto a terra o in mare, hanno realizzato di aver scampato la morte.
La forza della donna fenice è anche quella delle donne Rohingya che, dopo aver subito violenze di ogni tipo in Myanmar, sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e a fuggire attraversando montagne, fiumi ed alcune volte il mare per cercare rifugio nei Paesi vicini in cerca di salvezza.
Le ho incontrate per la prima volta nel 2017 nelle Aid Station MOAS nella regione bengalese di Teknaf, poco lontano dal confine con il Myanmar. I nostri medici, farmacisti, infermiere e ostetriche le hanno curate e aiutate a dar alla luce i propri figli. A partire dal 2019 sono state coinvolte nei training sulla sicurezza in acqua per la formazione di volontari di primo soccorso. Oggi, come alcuni degli uomini presenti nei campi, sono esse stesse, grazie alle competenze apprese, una risorsa per la società che si trova a fronteggiare alluvioni ed episodi di annegamento. Il loro contributo è per me motivo di grande orgoglio.
Ma il mio pensiero, in questi giorni, non può non andare alle donne che in Yemen stanno affrontando una delle peggiori carestie e crisi sanitarie della storia, alle donne siriane che vivono da anni l’incubo della guerra e alle donne che rischiano la propria vita e quella dei propri figli al confine tra la Turchia e la Grecia, intrappolate alle porte dell’Europa o nei disumani campi profughi nelle isole greche.
A tutte loro auguro di spiegare le ali come la fenice, di prendere in mano la propria vita, di rinascere in un futuro migliore lasciando alle spalle le ceneri del passato.
Per tutte noi donne più fortunate la mia speranza è quella di non dimenticare coloro le quali non hanno i nostri stessi diritti, le nostre possibilità e la nostra serenità e di contribuire ogni giorno ad agire nel quotidiano affinché la luce della speranza possa continuare a restare accesa per tutte quelle fenici che oggi sono ancora tra le ceneri.
Regina Catrambone