Qualche giorno fa, il 14 febbraio, mentre eravamo tutti presi dalle celebrazioni di San Valentino, abbiamo dedicato i nostri auguri ad Afana per il traguardo che ha raggiunto con amore e dedizione, la laurea in Comunicazione Linguistica e Interculturale presso l’Università degli Studi di Bari. Ho incontrato Afana in una delle ultime missioni del 2014 condotta da MOAS a bordo della nave Phoenix che gli ha salvato la vita nelle acque del Mediterraneo.

Afana è un giovane camerunense che, a causa delle persecuzioni politiche, fugge dal proprio Paese natale per raggiungere la Tunisia in aereo con un permesso turistico in cerca di una nuova vita in uno Stato in cui chi manifesta il proprio dissenso contro il sistema non rischia di finire in carcere. Giunto in Tunisia, ci racconta, si rende conto che la realtà è ben diversa da come l’aveva immaginata, che la gran parte dei datori di lavoro mette in pratica la prassi del ritiro dei passaporti in modo da rendere impossibile ogni ulteriore spostamento e ricattabile il lavoratore. Afana riesce a riavere il proprio passaporto dichiarando di dover rientrare nel proprio Paese di origine e decide di spostarsi ancora una volta. La nuova destinazione individuata è l’Europa.

Così nel corso di una notte comincia il suo viaggio, attraversando il confine desertico tra la Tunisia e la Libia, camminando per circa 10 ore a piedi, con la speranza, secondo quanto riferito, di salire a bordo di una nave. In realtà, prima di partire, sarà costretto a vivere per un mese in una sorta di ghetto, sotto il controllo delle bande armate che perpetrano ogni genere di prepotenza e di violenza davanti agli occhi impotenti di bambini, donne e uomini. Come tutti, Afana si ritrova, impaurito, in una situazione che non avrebbe mai immaginato. Dopo i primi momenti di terrore e di sconforto tira fuori tutta la sua forza e il suo istinto di sopravvivenza e capisce che non può far altro che stringere i denti e provare ad andare avanti. Afana ci racconta che in quei giorni ha compreso il vero senso della vita, il valore che ha e lo scarso controllo che possiamo avere su ciò che ci accade. Ci confessa che:

“quando le cose accadono bisogna saperle accarezzare nel modo giusto. L’impotenza provata quando per la prima volta qualcuno viene stuprato davanti ai tuoi occhi ti getta nella disperazione più totale. Le prime volte non riesci a trattenere le lacrime, poi quei gesti così brutali diventano abitudine e prende il sopravvento l’istinto di sopravvivenza. Capisci che la prossima vittima potresti essere tu. E ti prepari. Pensi solo a sopravvivere. Lo stupro ti sembra il male minore, l’importante è vivere. Tra il terrore e la violenza ci stavano i nostri aguzzini che ci stavano deumanizzando. La sera, però, quando potevamo, facevamo scappare donne e bambini per evitare che anche loro potessero assistere a tali atrocità”.

Dopo un mese, il 30 settembre, dopo averli portati su una spiaggia, i trafficanti dicono che ad attenderli ci sarebbe stata una grande nave di legno e che sarebbe stato necessario affrontare qualche minuto di navigazione in gommone per raggiungerla. Alle 21.00 sono circa in 200 e vengono fatti salire su due gommoni. Su quello sul quale si trova Afana ci sono circa 90 persone. L’altro gommone, dopo circa 15 minuti dalla partenza, si ribalta e tutti sprofondano tra le urla nelle fredde acque del Mediterraneo. Il panico si diffonde, in quei momenti concitati e confusi non sanno come reagire, se provare a tornare indietro e salvare chi sta annegando o se continuare la propria disperata navigazione. Poi il silenzio. Tutti, però, continuano a credere che a breve scorgeranno la nave che li attende per la traversata. L’oscurità della notte si fa sempre più fitta e le speranze cominciano a farsi vacillanti, il credito del telefono satellitare termina, l’inesperienza di chi guida, un migrante istruito qualche giorno della partenza senza alcuna esperienza di navigazione, fa si che smarriscano la rotta terminando il carburante a disposizione. Passano le ore e, in balia delle onde, c’è chi sviene e chi piange, chi prega e chi pensa che la propria vita terminerà a breve imprecando affinché ciò avvenga nel minor tempo possibile.

L’unico desiderio di Afana, su quel gommone, è quello di continuare a vivere mentre la propria vita è appesa un labile filo. Quando, dopo molte ore, vede giungere la nave MOAS è un momento di liberazione, una luce, una speranza.

Le lacrime di emozione della sua laurea ci ricordano quanto sia stato impossibile per lui immaginare, in quei momenti, una vita e un riscatto come quello ottenuto oggi. E ci dice:

“dopo esser stato un migrante nel Mediterraneo sei una persona nuova, è come se nascessi nuovamente e hai bisogno di sentirti trattato con la dolcezza con la quale si tratterebbe un bambino. Ogni persona salvata è un bambino che nasce. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a prenderci cura della nostra vita. Quando arrivi qui non hai più nessun piano, non sai più chi sei e cosa farai, non sai fare più niente, sai solo sopravvivere, sei solo e non hai più nessuno. Se non ti prendono per mano e ti spiegano ogni minima cosa non puoi farcela”.

E poi ancora, una volta approdati in Europa, l’impossibilità di una vita normale e la trafila burocratica dei centri, le giornate vuote, senza nessuno al proprio fianco, ad attendere.

Dopo tre mesi in un CAS in Toscana viene trasferito in Puglia presso lo SPRAR di Cerignola, l’inserimento in una comunità ecclesiastica che lo prende per mano e l’inizio, passo dopo passo, di una nuova vita.

Suor Paola diventa come una madre, gli comprerà la sua prima giacca e lo spronerà a proseguire gli studi. Nel maggio del 2015 Afana vede riconosciuto il proprio status di rifugiato e ottiene una borsa di studio che gli permetterà di laurearsi. Oggi è impegnato nel Servizio Civile presso l’Università di Bari, dove è impegnato attivamente nella tutela dei diritti umani.

A margine della sua tesi Afana ringrazia MOAS per avergli salvato la vita. Siamo noi a ringraziarlo perché siamo orgogliosi del suo impegno e del percorso esemplare che ha compiuto, siamo fieri di non essere stati indifferenti e di aver contribuito a far sì che 40.000 bambini, donne e uomini non perdessero le proprie speranze tra le acque del Mediterraneo donandogli una seconda vita.

Per questo motivo oggi chiediamo che la tragedia nel Mediterraneo possa avere fine attraverso l’implementazione di Vie Sicure e Legali, come il ricongiungimento familiare, la sponsorship, i visti di lavoro e studio agevolati,  i corridoi umanitari e tanti altri strumenti ancora che esistono ma vengono scarsamente utilizzati per permettere alle persone più vulnerabili di raggiungere in sicurezza i Paesi di destinazione ed evitare sofferenze e perdite di vite umane.

Contribuisci anche tu firmando il nostro appello: http://www.moas.eu/it/viesicureelegali/

Regina Catrambone