La settimana scorsa sono sbarcate sulle coste italiane circa 12 mila persone salvate da 22 navi, principalmente di ONG, impegnate in mare a prestare assistenza e soccorso a un numero senza precedenti di persone ammassate su imbarcazioni malsicure.
Fra loro, anche un neonato nato durante la traversata a cui non è riuscito a sopravvivere. Per i soccorritori non c’è stato nulla da fare al loro arrivo e il suo corpicino senza vita è arrivato a Pozzallo a bordo della nave militare Foscari.
Nei principali porti di sbarco, gli operatori di terra hanno intrapreso una vera e propria maratona per garantire una degna prima accoglienza ai sopravvissuti ai viaggi della morte.
Di fronte a una simile epocale ondata migratoria, la reazione politica da più parti è stata vagliare concretamente l’ipotesi di non far più sbarcare le navi che salvano i migranti, ma non battono bandiera italiana.
La portata e la gravità della situazione sono evidenti ed innegabili per tutti e nessuno si illude che l’Italia, lasciata sola nella gestione degli sbarchi dal resto dei Paesi Membri dell’UE, possa sostenere un simile impegno. Soprattutto perché, lungi dall’essere una situazione emergenziale, si tratta di una realtà strutturale e presente da anni.
Come ribadito dalla Comunità di Sant’Egidio, basterebbe usare efficamente gli strumenti che il diritto europeo mette a disposizione degli Stati Membri e in particolare la direttiva numero 55 del luglio 2001.
Le persone salvate in mare non arrivano sul suolo europeo in vacanza o per un capriccio. Arrivano dopo essere sopravvissute a viaggi infernali fra il deserto, le prigioni libiche dove ogni diritto umano viene calpestato.
Negare loro di sbarcare in Italia, attualmente il paese che coordina gli interventi SAR in mare tramite l’MRCC di Roma e dove si trovano i primi porti sicuri, significa allungare ulteriormente la loro agonia.
Significa aumentare il tempo a bordo delle navi ONG che le hanno salvate e procrastinare il tanto atteso arrivo sulla terraferma, che per loro rappresenta l’inizio di una nuova vita.
Ignaro di ciò che lo aspetta, fra accoglienza precaria e integrazione quasi inesistente, chi viene salvato in mare tenta in ogni modo di cancellare le immagini del proprio orribile passato, concentrando tutte le energie sull’inizio della nuova e tanto attesa vita.
Mi chiedo se questo venga tenuto presente dai decisori politici ad ogni livello.
Mi chiedo che priorità abbia il loro benessere, la loro salvezza e sicurezza.
La questione migratoria viene affrontata quasi completamente dalla “nostra” prospettiva di persone privilegiate per essere nate nel posto giusto e mai dalla “loro” in fuga da indicibili orrori.
La narrativa generale dimentica troppo spesso la dimensione tragicamente e meravigliosamente umana delle migrazioni e si concentra sui numeri e sulle masse: masse di persone arrivate per invaderci e rubarci quello che abbiamo.
Ma questa dialettica dello scontro, della contrapposizione distrugge oggi empatia e così si finisce per dimenticare che chi sbarca in Europa dopo viaggi della speranza è vittima di circostanze terribili, che il viaggio non è una scelta, bensì l’unica opzione di sopravvivenza rimasta.
Nessuno sceglie di diventare rifugiato.
Nessuno sceglie di scappare dalla propria casa, intraprendendo un viaggio infernale.
Allo stesso modo, però, nessuno può e deve dimenticare la sofferenza di chi ha perso tutto, tranne la vita e la speranza.
“Che vi dirò poi degli uomini? che riputandoci (come ci riputeremo sempre) più che primi e più che principalissimi tra le creature terrestri; ciascheduno di noi se ben fosse un vestito di cenci e che non avesse un cantuccio di pan duro da rodere, si è tenuto per certo di essere uno imperatore; non mica di Costantinopoli o di Germania, ovvero della metà della Terra, come erano gl’imperatori romani, ma un imperatore dell’universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle stelle, dei pianeti, di vostra signoria illustrissima, e di tutte le cose”
Copernico, Giacomo Leopardi
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