Il 15 marzo sono stata invitata dalla Gioventù per la Pace di Sant’Egidio Belgio a tenere un discorso di fronte a un gruppo di studenti universitari interessati a comprendere meglio la missione MOAS e gli attuali flussi migratori che costituiscono la più grande sfida del nostro tempo.

Avevo incontrato la Presidente, Hilde Kieboom, lo scorso settembre a Münster in occasione dell’evento Strade di Pace durante cui avevo raccontato le sfide affrontate nei tre anni in mare e introdotto la missione in sud-est asiatico che avevamo appena avviato. Proprio lei ha promosso questa ulteriore occasione di scambio e di dialogo per sensibilizzare sulla tragedia che vivono quotidianamente i Rohingya sia nel paese da cui fuggono, il Myanmar, che in quello dove vengono accolti, il Bangladesh. Oltre i numeri e le statistiche, è stato importante spiegare ciò che ogni giorno fa il nostro team medico sul campo che incessantemente presta assistenza e cure mediche gratuite a questa comunità martoriata, la cui sofferenza sembra destinata a continuare ancora. Nelle due Aid Station di Shamlapur e Unchiprang osserviamo le cicatrici e le ferite di chi è sopravvissuto per miracolo a incendi appiccati alla propria casa, a violenze di ogni genere e alla fuga disperata con mezzi di fortuna. Da metà ottobre a fine febbraio nelle nostre strutture sono stati assistiti quasi 48mila pazienti, di cui il 43% è di sesso femminile e il 41% è costituito da bambini. In molti casi, abbiamo assistito neonati e madri che non avevano mai visto un dottore in vita loro o prestato cure mediche urgenti e vitali per la sopravvivenza degli assistiti.

In questa occasione, sono state evidenziate anche le sfide imminenti e future legate principalmente alla stagione monsonica con annesso ciclone in arrivo e alla sostenibilità della missione stessa. Monsoni e cicloni in quanto eventi atmosferici estremi minacciano costantemente il Bangladesh e negli anni passati hanno causato ingenti danni e distrutto molte vite umane. Per quest’anno i timori sono ancora maggiori vista l’emergenza in termini di sovraffollamento dei campi profughi e degli insediamenti informali che ospitano i Rohingya. Si calcola, infatti, che solo dallo scorso 25 agosto quasi 700mila persone siano arrivate in un esodo biblico innescato dallo scoppio di una nuova ondata di violenze e che si siano sommate a quelle giunte negli esodi precedenti degli anni 70 e 90.

In sala era molta la commozione di chi ascoltava le storie dal campo, le testimonianze della sofferenza di questo popolo ingiustamente perseguitato e, come rappresentante MOAS, sono felice di aver dato voce alle migliaia di fratelli e sorelle Rohingya che la comunità internazionale sembra aver dimenticato. A loro volta, i Giovani per la Pace hanno condiviso la loro esperienza, raccontando la preoccupazione di vedere il proprio paese sempre più diviso da razzismo, xenofobia e chiusura all’altro. Mentre ribadivano la necessità di esempi positivi, di esperienze costruttive che incentivo il dialogo e la reciproca conoscenza, mi tornavano in mente le parole di Papa Francesco. Nel 2013 il Santo Padre si appellò alla comunità internazionale affinché evitasse la “globalizzazione dell’indifferenza”, spingendo anche la mia famiglia a mettersi in prima linea al servizio del fratello, mentre oggi chiede che la “globalizzazione della solidarietà”.

In un momento storico buio attraversato da pericolosi ritorni alla violenza e da conflitti sempre più accesi, è fondamentale valorizzare ciò che unisce e difendere instancabilmente i diritti e la dignità di ogni vittima di violenza. Proprio la solidarietà è al centro di una pericolosa campagna di criminalizzazione che va avanti da oltre un anno e i cui amari frutti sono sotto i nostri occhi ogni giorno: si dimentica così la dimensione profondamente umana e drammatica della migrazione incontrollata in mancanza di vie legali e sicure per i più vulnerabili.

Incontrare dei giovani e dei professori così sensibili alla tematica dei flussi migratori e così interessati alla questione dei Rohingya in fuga verso il Bangladesh mi fa sperare che sia ancora possibile costruire un mondo più accogliente e giusto percorrendo un sentiero comune fatto di misericordia, fede, etica, moralità e servizio al fratello. Solo così abbatteremo ogni frontiera mentale ed emotiva per spalancare le porte del nostro cuore al prossimo: costruiamo ponti, abbattiamo  muri e apriamo le braccia per accogliere.