Nur Begum ha circa nove anni e vive nel campo di Balukhali, in Bangladesh, insieme a migliaia di altri Rohingya fuggiti dal Myanmar dopo l’ennesima ondata di violenze da parte delle autorità ufficiali.
Quando la incontra il nostro team a Unchiprang per lei è un giorno speciale. Nell’ultimo giorno dell’Eid, festa importantissima per i musulmani, dopo mesi di lontananza può finalmente rivedere le sue due migliori amiche.
La fuga le aveva separate e non avevano idea se si sarebbero mai riviste. Ma ora sono insieme, sorridenti, con dei limoni in mano da condividere.
Raccontano le violenze, la paura e i viaggi disperati per mettersi in salvo. Come ogni bambina della loro età, hanno sofferto la lontananza dalle amiche. Sanno bene di essere fra i più perseguitati sulla terra, ma si chiedono solo cosa c’entrino loro. Si chiedono perché non possano più giocare insieme come quando vivevano tutte in Myanmar con le loro famiglie.
La questione dei Rohingya è una ferita dolorosa per tutta la comunità internazionale che non riesce a porre fine alla loro ingiusta persecuzione. Dopo la missione delle NU sul campo, è ormai accertato ciò che di fatto si sapeva dall’inizio: i Rohingya sono stati vittime di pulizia etnica, genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità.
Di questo dovrà occuparsi la giustizia per restituire dignità e rispetto a una comunità storicamente perseguitata.
Ma nessuna giustizia restituirà l’infanzia perduta alle tante bambine che come Nur Begum hanno subito un trauma terribile. Nessuna giustizia compenserà i tantissimi bambini ammassati nei campi per la paura e il terrore che hanno provato. Perché oltre la politica, le leggi e le religioni ci sono le persone.
E le persone sono quelle che pagano il prezzo più alto della violenza perché si trovano incastrate fra calcoli politici, odi razziali e guerre civili che cancellano la loro vita in un attimo, mentre ci possono volere anni per tornare alla normalità.
Come Nur Begum, anche noi dovremmo chiederci perché i governi giochino con la vita delle persone e impegnarci costantemente per far sì che le persone vengano prima di qualsiasi altra considerazione.