Un’altalena, un dondolo di legno, una bimba vestita di rosso che attraversa il piazzale di una Aid Station, il sorriso degli altri bambini dietro di lei impegnati a giocare, la mano in alto per salutare di uno di loro. Provo speranza quando l’instancabile team MOAS dal Bangladesh invia questa foto poco dopo averla scattata: finalmente una buona notizia che mitiga la preoccupazione per il monsone e per le sue conseguenze, oltre al timore di non riuscire a raggiungere chiunque abbia bisogno di cure mediche.
In un angolo una ragazzina col fratello piccolo siede dietro tre cassette di frutta nella speranza di vendere qualcosa e racimolare qualcosa. Alcune si prendono cura dei fratelli minori, altre si mettono in posa davanti a un operatore che vuole scattare una foto.
Se non fossimo in un insediamento di rifugiati Rohingya devastato dalle torrenziali piogge e quei bambini non fossero stati già molto provati dalla vita, sarebbero scene di normale quotidianità in una città qualsiasi. Poco più avanti uomini e donne allestiscono un mercato di frutta e verdura, qualcuno prega, qualcun altro cerca di mettere in sicurezza la propria abitazione.
Fin dal primo momento, le MOAS Aid Station sono state concepite come oasi di ascolto dove le persone potessero trovare anche conforto e tranquillità per riposarsi dal trambusto che caratterizza la vita del campo dove c’è sempre da fare. Poi abbiamo pensato di mettere dei giochi per i bambini che nella comunità Rohingya in Bangladesh rappresentano fino al 60% del totale. In meno di un anno, i team medici MOAS hanno curato 75.000 pazienti, di cui 40% erano donne e ragazze mentre 44% erano bambini. In Bangladesh ci sono 1.3 milioni di persone che hanno urgente bisogno di assistenza, mentre sono solo 33 le strutture che forniscono cure mediche primarie per alleviare la sofferenza sia dei Rohingya che delle comunitàlocali che li ospitano.
Durante le mie permanenze sul campo e grazie alle continue notizie che giungono, ho avuto modo di apprezzare il coraggio e la forza interiore di questa comunitàche continua con coraggio a non perdere la speranza. Se qualcuno mi chiedesse di descrivere l’atteggiamento dei Rohingya con una sola parola, menzionerei “resilienza”: hanno tollerato soprusi nel paese dove sono nati che non li riconosceva come cittadini, sono scampati per miracolo a una nuova ondata di violenze etichettata come genocidio, hanno intrapreso viaggi infernali e si sono adattati a vivere in campi sovraffollati ed esposti alle intemperie del monsone.
Molte delle donne che ho incontrato avevano subito violenze e sopportato la perdita di amici e familiari barbaramente uccisi davanti ai loro occhi. Eppure, non si sono mai arrese: con lo sguardo puntato al futuro, non hanno mai smesso di proteggere ciò che rimaneva della loro famiglia e di chiedere giustizia. Proprio queste richieste di giustizia si sono fatte più pressanti in occasione dell’anniversario dell’esodo dal Myanmar al Bangladesh. Secondo AFP, il 25 agosto -ad un anno dall’inizio del genocidio- circa 40.000 persone avrebbero preso parte ad una protesta per chiedere che le violenze subite non si verificassero “Mai Più”. Nel frattempo, continuano i negoziati per i rimpatri dal Bangladesh al Myanmar e la comunità Rohingya è alquanto divisa al suo interno fra chi tornerebbe immediatamente, chi solo dopo rassicurazioni di veder rispettati i propri diritti (possibilmente sotto il costante monitoraggio di organismi internazionali) e chi non vuole nemmeno discutere questa opzione per paura di ricadere in una trappola.
Proprio questi temi sono stati vagliati da Xchange che lo scorso maggio ha intervistato uomini e donne Rohingya su questo tema: in generale, circa il 99% ritornerebbe in Myanmar a certe condizioni, mentre solo 5 intervistati hanno dato disponibilità a rientrare in qualsiasi caso. Le condizioni prevederebbero principalmente il riconoscimento della cittadinanza, il rispetto dei loro diritti e libertà fra cui quella di professare la propria religione e muoversi liberamente.
Ovunque vivere in campi profughi sovraffollati o in accampamenti informali privi di adeguati servizi mette a dura prova chiunque. Nel caso dei profughi Rohingya, la situazione viene ulteriormente aggravata dal loro status di apolidi che pregiudica il futuro di intere generazioni. A metà agosto, Human Rights Watch ha denunciato le violenze subite da sei Rohingya rientrati in Bangladesh che sarebbero stati sottoposti a interrogatori violenti per far loro confessare una inesistente affiliazione all’ARSA[1]. Il mio timore è che si commetta lo stesso errore che in tre anni di missioni SAR fra il Mediterraneo e l’Egeo abbiamo costantemente denunciato. Temo che ancora una volta si parli dei Rohingya e non coi Rohingya che invece andrebbero ascoltati sia per comprendere le loro paure che per soddisfare le loro richieste di giustizia. Solo se le loro rivendicazioni verranno ascoltate e i loro diritti tutelati, si potrà pianificare un rientro nel paese dove sono nati e da cui sono dovuti fuggire.
Tradire per l’ennesima volta intere generazioni di Rohingya in cerca di pace non sarebbe solo terribilmente ingiusto nei loro confronti, ma dimostrerebbe l’assoluta incapacità della comunità internazionale di attenersi alle convenzioni e ai trattati che sono stati sottoscritti per proteggere i più vulnerabili.
[1]L’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) è un gruppo di militanti considerati ribelli dal governo birmano che li accusa di essere responsabili di violenze arbitrarie e crimini contro le forze di polizia. Alcuni attacchi avvenuti a presunti posti di blocco sarebbero la causa dell’ondata di violenze che ha generato l’esodo in massa a partire dal 25 agosto 2017.