Il 6 Maggio la nave MOAS, M.Y. Phoenix, è entrata nel porto di Catania per far sbarcare le persone salvate in mare durante l’ultima missione SAR.

Insieme ai sopravvissuti al pericoloso viaggio, con noi c’era anche il corpo senza vita di un giovane uomo cui un trafficante aveva sparato, uccidendolo. Stando alla testimonianza dei sopravvissuti, il trafficante voleva il suo cappellino da baseball.

I testimoni hanno parlato di una possibile incomprensione fra i due a causa delle barriere linguistiche in seguito alla quale questo ragazzo del Sierra Leone è stato erroneamente ferito da un colpo di arma da fuoco. Non sapremo mai il motivo per cui ha perso la vita durante quel viaggio infernale che sperava lo avrebbe portato al sicuro.

Insieme a lui c’era il fratello che lo ha vegliato per tutto il viaggio verso nord.

Nessuna parola potrà descrivere il mio dolore mentre li guardo: due ragazzi nati soltanto nella parte sbagliata del mondo. Uno a cui hanno sparato a morte, l’altro disperato per aver perso l’unico familiare vicino.

Durante quella stessa missione, abbiamo tratto in salvo una famiglia siriana con una bimba di soli due mesi. Questa giovane coppia veniva da Damasco ed erano entrambi avvocati nella loro vita precedente, prima della guerra civile.

Quando è scoppiata, la guerra civile siriana ha distrutto i loro progetti, la loro vita quotidiana, le loro famiglie e ben presto è diventato impossibile rimanere lì.

Così, sono stati costretti a lasciare il proprio paese e affrontare terribili sfide prima di giungere in Libia dove hanno provato a stabilirsi. Quando Doaa ha partorito, insieme al marito ha compreso che doveva cercare altrove un luogo sicuro.

Per farlo hanno dovuto mettere la propria vita nelle mani dei trafficanti e hanno tentato la traversata ben quattro volte prima che la loro imbarcazione venisse individuata dall’equipaggio MOAS.

Una volta a bordo hanno trovato la forza per raccontare ciò che avevano vissuto e hanno condiviso la loro storia con me e alcuni membri dell’equipaggio.

Dalla creazione di MOAS, ho partecipato a molte missioni SAR e ho avuto modo di ascoltare le storie dei migranti dalla loro stessa voce, condividendo emozioni e sentimenti.

Anche se tutte le storie sono diverse, c’è sempre un tratto in comune: un destino ingiusto che li costringe a rischiare la vita in cerca di sicurezza.

Nessuno dovrebbe essere costretto a salire su un gommone o un barcone di legno.

Essendo in prima linea in questa crisi umanitaria, ho visto coi miei stessi occhi come sono cambiate le cose negli anni.

Quando abbiamo lanciato il nostro pionieristico progetto nel 2014, volevamo testare uno strumento nuovo per diminuire le morti in mare.

Siamo stati la prima ONG gestita dalla società civile a farsi avanti e assistere la Marina Italiana e la Guardia Costiera in mare.

La nostra motivazione era semplice.

Come esseri umani, non potevamo semplicemente accettare che le persone morissero in mare mentre attraversavano il Mediterraneo proprio alle porte dell’Europa.

Come famiglia, sentivamo la responsabilità di aiutare altre famiglie.

Come imprenditori, avevamo competenze, professionalità e risorse da investire in una nobile causa: salvare vite in mare.

Purtroppo, da allora, la situazione è solo peggiorata come dimostrato dagli effetti palesi e più terribili del traffico di esseri umani.

I nostri equipaggi devono far fronte a un numero mai visto di ferite fisiche e traumi psicologici dovuti agli indicibili abusi inflitti a chi si trova nelle mani dei trafficanti.

Le donne e i bambini, che rappresentano circa metà dei rifugiati a livello mondiale, sono le vittime più vulnerabili.

Come possiamo accettare che altre donne, ragazze e madri con bambini siano costrette a vivere esperienze così devastanti?

Inoltre, nel 2014, su un gommone solitamente trovavamo circa 75-80 persone, mentre l’anno scorso il team MOAS ha salvato fino a 120-150 persone. Lo stesso accade con le barche di legno, le cui condizioni peggiorano costantemente.

In media su ogni imbarcazione vengono stipate 50 o 60 persone in più rispetto agli anni passati.

Come possiamo negare assistenza a persone così disperate e continuare a sentirci umani?

Alla luce di ciò, MOAS insieme all’UNHCR sta lavorando concretamente alla creazione di valide alternative ai flussi migratori fuori controllo attraverso l’apertura di vie sicure e legali, come i corridoi umanitari.

I corridoi umanitari servirebbero a sradicare le reti dei trafficanti, fornendo ai più vulnerabili la possibilità di arrivare in Europa per vie legali, e aumenterebbero il livello di sicurezza dal momento che i potenziali candidati verrebbero precedentemente scrutinati in base ai criteri stabiliti dal Diritto Internazionale.

La migrazione da sempre fa parte della storia umana e ignorarla non ci aiuterà a risolvere la situazione attuale.

Proprio per questo MOAS è pronta a far tesoro di quanto appreso durante le  operazioni SAR per ampliare la nostra missione e salvare ancora più vite.

Perché Nessuno Merita Di Morire In Mare.

*Questo articolo è stato pubblicato in inglese per Thomson Reuters Foundation News in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. Qui l’originale.

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