Il 25 Settembre sono atterrata in Canada per partecipare a una 3 giorni di incontri e discutere un argomento molto delicato che influenza la nostra vita quotidiana. Cittadinanza ed inclusione sono due aspetti importanti di un argomento più ampio quale è la migrazione. I fondatori di questa importante iniziativa -John Ralston Saul e Adrienne Clarkson- hanno anch’essi partecipato attivamente agli incontri per testimoniare il loro impegno a costruire un mondo migliore e un futuro condiviso.

In quest’occasione ho potuto ascoltare il discorso di Sophie Trudeau che mi ha molto colpita visto che condividiamo la stessa prospettiva. Sophie Trudeau ha sottolineato che, nell’affrontare l’attuale scenario migratorio a livello mondale, dobbiamo tornare alle radici dell’empatia. In svariate occasioni ho sottolineato l’importanza dell’empatia che fa da ponte per collegare l’universale esperienza umana. Per noi a MOAS le radici dell’empatia sono nei nostri cuori e ci hanno spinti a scegliere sempre il coraggio al posto della paura, dell’inazione e dell’indifferenza.

Il primo giorno si è tenuta un’importante cerimonia in cui persone provenienti da varie parti del mondo hanno ricevuto la cittadinanza canadese. Le autorità ufficiali, fra cui il Luogotenente Governatore dell’Ontario Elisabeth Dowdeswell, le hanno ringraziate per aver scelto il Canada come nuovo paese in cui vivere. Da italiana e da europea che risiede in un’area dove aumentano populismo e xenofobia, è stata una ventata di libertà e democrazia. “Veniamo tutti da qualche luogo e oggi cominciamo da canadesi!”; ecco una delle affermazioni condivise durante la tavola rotonda organizzata dall’ICC (Istituto per la Cittadinanza Canadese) che è diventata il miglior punto di partenza per tutti noi. Lo stesso giorno le popolazioni indigene erano rappresentate da Stacey Laforme e sono state riconosciute come elemento di grande rilievo all’interno di una società inclusiva che dia voce ed attenzione a tutti i suoi membri.

Con il Luogotenente Governatore dell’Ontario Elisabeth Dowdeswell

Nel corso del panel “WALLS” sono stata felice di rappresentare MOAS e di parlare a nome delle tante persone che non hanno voce e rischiano la vita per cercare protezione. Altre personalità hanno contribuito alla discussione: Margaret Atwood, poetessa e scrittrice canadese vincitrice di molti premi; Bernhard Schlink, scrittore tedesco; Robert Johnson, Presidente dell’Institute for New Economic Thinking; Reni Eddo-Lodge, giornalista che ha ricevuto vari riconoscimenti: Charlie Foran, scrittore e CEO dell’Istituto per la Cittadinanza Canadese.

Per cominciare ci è stato chiesto di definire la nostra idea di muri e riflettere sull’impatto che hanno sulla vita delle persone. Bernhard Schilnk, che viveva in Germania all’epoca del muro, ha avviato la discussione, spiegando cosa avesse rappresentato per lui: un muro che divideva fidanzati, famiglie e amici causando enorme dolore a persone innocenti. Ha ricordato poi la gioia immensa nel vederlo cadere nel Novembre 1989: “Sembrava un’esplosione di amore fra est e ovest che finalmente potevano tornare uniti”. Subito dopo Margaret Atwood è andata indietro nel tempo fino alla Seconda Guerra Mondiale e le orribili conseguenze del vivere in uno stato di polizia che controlla e limita la libertà. Reni Eddo-Lodge ha esordito dicendo che, nonostante in generale si concordi sul fatto che “i muri siano qualcosa di negativo”, non si dà la giusta attenzione a quelli invisibili che frappongono una distanza fra noi e il resto del mondo. Allo stesso modo Robert Johnson ha ribadito che “I muri più pericolosi sono quelli di cui non siamo consapevoli e si trovano dentro di noi”.

Per MOAS i muri non sono soltanto quelli fatti di mattoni o filo spinato né quelli che dividono fisicamente le persone. I muri possono esseri invisibili e fluidi. Mare, deserto e fiumi possono anch’essi diventare muri che separano la vita dalla morte. Eppure, i muri più difficili da oltrepassare sono quelli dentro la nostra mente e il nostro cuore. La distanza non è solo una questione di geografia, ma anche di legami emotivi ed empatia umana che ci consentono di comprendere la nostra fratellanza universale. Attraverso l’empatia possiamo accedere ad una dimensione condivisa di umanità che unisce invece di dividere.

Dobbiamo chiederci come verremo giudicati dalle future generazioni per aver lasciato le persone annegare o morire in campi sovraffollati dove i diritti umani vengono violati costantemente mentre abusi e violenze sono all’ordine del giorno.

Come potremo spiegare o giustificare la nostra inazione o indifferenza di fronte alla sofferenza umana?

Nessuno decide di diventare un rifugiato o di lasciare il proprio paese intraprendendo un viaggio mortale a meno che non si è disperati e senza alcuna speranza. Costruire un futuro migliore è un processo da avviare il prima possibile includendo tutte le parti interessate ad ogni livello. Non esiste una soluzione unica per un tema così delicato, ma è essenziale considerare tutti gli aspetti e il modo in cui parliamo della migrazione. Non dobbiamo più stigmatizzare la parola migrante. A tal proposito, i giornalisti hanno un ruolo chiave nel presentare le storie conservandone la dimensione umana e offrendo ai lettori la prospettiva migliore per comprendere una esperienza così drammatica.

Tutti noi possiamo contribuire col nostro esempio ad alleviare l’attuale crisi umanitaria che colpisce un numero senza precedenti di persone a livello mondiale e gestire in modo più razionale il flusso umano –Human Flow- rappresentato dall’artista Ai Weiwei, anch’egli presente, che ha condiviso la propria esperienza per la creazione di un mondo migliore.

Con l’artista Ai Weiwei e Adrienne Clarkson

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