Non riesco a togliere questa immagine dai miei pensieri. Il video della morte per annegamento di Pateh Sabally mi perseguita. Pateh è scomparso domenica nelle acque lagunari del Canal Grande a Venezia sotto gli occhi indifferenti delle persone che hanno assistito alla scena e che, in alcuni casi, hanno trovato il tempo di girare video per riprendere la tragica fine di una vita umana.

Pateh Sabally veniva dal Gambia, era sbarcato a Pozzallo due anni fa e aveva solo 22 anni.

Cinque di questi video sono attualmente al vaglio della Procura e in alcuni si sentono grida, commenti razzisti da cui non traspare alcuna empatia verso un ragazzo che si è gettato nelle acque fredde del Canal Grande in una domenica pomeriggio affollata dai turisti.

Cerco di ricostruire questa storia nei dettagli, leggendo online e sui social.

Pateh è un ragazzo giovanissimo aveva ricevuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari che poi gli era stato ritirato.

Mi accorgo tristemente che su molti articoli non viene nemmeno riportato il nome. Viene etichettato come “migrante”, “profugo”.

Essere umano, dico io. Un essere umano che ha perso la speranza a tal punto da decidere di lasciarsi morire in acqua.

Tutto avviene in pochissimo tempo. Dai video risulta che Pateh Sabally si sia buttato in acqua, quindi si sia tolto il giubbotto. Il giovane volontariamente finisce sott’acqua con la testa, poi riaffiora. Vedo il vaporetto molto vicino, qualcuno lancia dei salvagenti in acqua Pateh ne viene quasi circondato, le sue mani sono molto vicine ai salvagenti ma  non li raggiungono e pian piano vengono sommerse dall’acqua mentre il corpo affonda. Il marinaio apre il barcarizzo per un ultimo, disperato tentativo di salvare il giovane. Tutto inutile. In quel momento Pateh finisce sotto il vaporetto e non riemerge più. Lo troveranno i sommozzatori un’ora più tardi, ormai senza vita, incagliato tra i pali a cui vengono assicurate le gondole veneziane.

Una fitta mi trapassa il cuore. Immaginare la scena dei sommozzatori che recuperano il corpo incastrato fra i pali per ormeggiare le gondole mi indigna profondamente e mi interroga sulla nostra stessa umanità.

Come donna e come madre, come essere umano questa vicenda mi addolora moltissimo, provo un’enorme tristezza nel costatare come siamo divenuti indifferenti nei confronti delle altrui vite. Che questa persona anneghi sotto gli occhi di tutti senza che nessuno si tuffi per aiutarlo mi sembra assurdo e incredibile allo stesso tempo.

Mai avrei potuto immaginare che nel mio paese un giovane ragazzo, salvatosi dal terribile viaggio attraverso il deserto e il mare, dovesse morire d’indifferenza e disperazione sotto gli occhi di centinaia di persone incuranti. Quella morte ci tocca tutti nel profondo delle nostre coscienze perché a morire nel Canal Grande non è stato solo Pateh ma anche la società rimasta a guardare.

Mentre leggo e cerco di capire qualcosa in più della vita di Pateh penso ai suoi genitori, parenti, amici, penso all’impegno di chi ogni giorno si adopera per salvare, integrare, accogliere, curare e nutrire chi arriva sulle nostre coste sperando in un futuro migliore. E alla luce di tutto questo mi chiedo come siamo potuti divenire così distaccati dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle in cerca di pace e sicurezza.

Non avrei mai potuto immaginare un episodio come quello avvenuto a Venezia domenica. Sono molte le domande che mi assalgono alle quali non riesco a trovare una risposta.

La prima che affiora è: e se fosse stato italiano? O anche semplicemente bianco? La sua pelle ha giocato un ruolo nella mancata reazione di chi osservava?

Di certo ha scatenato alcune frasi razziste difficili da digerire o giustificare.

Credo sia necessario riscoprire la misericordia, la fratellanza universale, l’empatia che oltrepassa ogni barriera e ci fa riscoprire la nostra vera essenza di uomini e donne che condividono speranze, sogni, paure, desideri e che pertanto non possono rimanere indifferenti alla sofferenza di chi gli sta accanto.

Oggi 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria per ricordare il tragico bilancio dell’Olocausto perpetrato dai nazisti nel silenzio dei paesi europei circostanti che fingevano di non vedere, di non sapere.

Ma che senso ha ricordare un passato di cui non riusciamo a riconoscere le minacce che ritornano?

Che senso ha piangere ascoltando una testimonianza di un sopravvissuto ai lager e ignorare il dolore silenzioso di Pateh Sabally che si sente così disperato da lanciarsi nelle acque gelide della laguna da cui nessuno lo salva?

Forse sarebbe bastato solo un abbraccio, una parola amica, un gesto di umanità per consolare Pateh, ma questo non lo sapremo mai perché ora lui non c’è più.

Regina Catrambone
Co-fondatrice e Direttrice MOAS
www.moas.eu