Lo scorso 24 gennaio sono stata invitata al Parlamento Europeo per partecipare ad una conversazione sullo Yemen che mi ha dato la possibilità di presentare la nostra imminente missione nel Paese al fine di portare assistenza medica a questa popolazione martoriata. Prima di iniziare la nostra missione in Bangladesh per supportare i Rohingya all’indomani del loro storico esodo, avevo parlato degli attraversamenti su quella rotta di cui non si parla quasi completamente e riflettevo sulle dinamiche migratorie che sfuggono alla logica quotidiana. Nessuno di noi, infatti, potrebbe immaginare di imbarcarsi alla volta di un Paese poverissimo, in guerra da anni, dove si muore di fame e malattie spesso facilmente prevenibili.
Tuttavia, come su molte altre crisi umanitarie dal Sud Sudan, all’Etiopia e al Bangladesh con la vastissima comunità Rohingya, spesso il dolore, gli abusi e le violenze sono nascosti da un pesante silenzio fatto di indifferenza o interessi privati di pochi potenti che si arricchiscono nonostante l’enorme costo umano. Pensiamo alla quantità di armi prodotta e venduta al mondo. Pensiamo al modo in cui facilmente si aggirano i divieti imposti sulla vendita di armamenti a Paesi in guerra e al modo in cui in nome del profitto quegli stessi armamenti siano venduti ad altri Paesi che possono eludere i vincoli internazionali per fomentare gli scontri.
Durante l’incontro al Parlamento europeo ho avuto l’onore di conoscere e scambiare idee con diverse personalità impegnate nella difesa dei Diritti Umani dal Dottor Panzeri che mi ha gentilmente invitata alla Dott.ssa Vehkaperä (Vice-Presidente del Comitato per lo Sviluppo). Sono intervenuti anche gli attivisti Kamel JENDOUBI e Radhya AL-MUTAWAKEL, la giornalista Rula JEBREAL, la scrittrice ed accademica Farian SABAHI. Ciascuno di noi, partendo dalla propria esperienza e relativamente alle proprie possibilità, ha chiesto di non dimenticare la popolazione yemenita, di agire il prima possibile e di far prevalere la cultura della pace su quella imposta dai signori della guerra. Lo Yemen da anni ormai, come tante altre regioni del pianeta, è in balìa dei signori della guerra. Bambini, donne e uomini innocenti sono abbandonati alla mercé di chi vende morte, mutilazioni e orrori difficili da immaginare.
Su questo punto, mi unisco alla richiesta dei Parlamentari Europei di “rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi” dopo essersi dichiarati “scioccati a causa della quantità di armi made in EU trovate in mano a Daesh in Siria e Iraq”. Come ribadito dalla Relatrice Sabine Lösing, “le esportazioni di armi non stabilizzano paesi o regioni straniere e non aiutano a costruire pace” chiedendo fra l’altro l’attuazione della “Posizione Comune sulle Esportazioni di Armi” e di un meccanismo sanzionatorio per chi trasgredisce. Ma, volendo trovare qualcosa di perfino peggiore a questo scempio, basta guardare noi stessi.
Continuiamo a illuderci che – finché gli abusi rimangono “a casa loro” – casa nostra sarà salva.
Pensiamo erroneamente che quegli abusi, quelle morti, quelle violenze, quelle malattie facilmente guaribili non riguardino nessuno di noi.
Come avviene per le tragiche traversate nell’Egeo dove tra il 2015 e il 2016 con la missione SAR del MOAS – salvammo 2000 esseri umani per lo più in fuga dai conflitti interminabili del Medio Oriente. Come avviene ogni giorno col Mediterraneo Centrale e Occidentale dove non sono rimasti testimoni e le urla dei naufraghi risuonano inascoltate. Come avviene con la minoranza apolide e storicamente perseguitata dei Rohingya e le altre innumerevoli crisi umanitarie che affliggono la nostra umanità.
Proprio lungo la rotta del Mediterraneo Centrale siamo scesi in campo nel 2014 come prima ONG gestita dalla società civile che reagisce alle inutili morti in mare e in tre anni abbiamo salvato ed assistito oltre 40.000 persone prima di sospendere le attività SAR per andare in sud-est asiatico. A fronte del mutato scenario operativo in mare che ci avrebbe resi parte di un meccanismo che favorisce respingimenti e collaborazione con la Guardia Costiera Libica, abbiamo deciso di concentrare risorse e talenti per mantenere viva la speranza di una minoranza vittima di genocidio, pulizia etnica e crimini contro l’umanità.
Con le nostre strutture mediche a Shamlapur e Unchiprang (Cox’s Bazar, Bangladesh) in circa un anno abbiamo curato 90.000 persone fra Rohingya e bengalesi che li hanno accolti. Siamo arrivati a settembre con 40 tonnellate di aiuti umanitari e immediatamente abbiamo lavorato per aprire le strutture di assistenza medica primaria. Già da metà ottobre eravamo operativi e non ci siamo fermati mai, nemmeno durante la stagione monsonica e ciclonica, partecipando alle campagne di vaccinazione e ai training in vista dei monsoni.
Nel 2019, fedeli al principio fondante di fornire assistenza dove è maggiormente necessaria, adattandoci alle sempre nuove sfide globali. Per questo, speriamo di lanciare un progetto pilota al più presto che preveda la consegna di aiuti umanitari e medici alle organizzazioni locali. Inoltre, la Phoenix con la sua clinica di bordo ha il potenziale per prestare cure mediche in base alle esigenze sul campo e grazie alla collaborazione di chiunque pensi che la vita umana sia la priorità assoluta. Speriamo in particolare che l’Unione Europea si lasci guidare in ogni sua azione dal principio di solidarietà che l’ha fondata alla luce degli “oltre 22 milioni di yemeniti che sono attualmente dipendenti dall’assistenza esterna e degli almeno 8 milioni e mezzo di persone sull’orlo della carestia che possono diventare 14 milioni -vale a dire metà della popolazione- se la situazione continua a peggiorare”.
Manteniamo la speranza accesa nel cuore di chi vive in guerra e cerca la pace.