Del mio ultimo viaggio in Bangladesh conservo molti volti nel cuore e nella memoria. Conservo il calore e i sorrisi ingenui dei bambini insieme alla speranza delle loro madri che li portano nelle nostre Aid Station per ricevere quelle cure che a loro sono state sempre negate in quanto apolidi e discriminati in Myanmar. Porto con me la gratitudine dei padri che possono smettere di aver paura per la salute dei propri figli appartenenti ad un popolo da sempre vittima di persecuzioni e violenze e che dallo scorso Agosto è fuggito in terribili condizioni dalle proprie case per trovare riparo in Bangladesh. Ricordo ogni giorno la devozione e l’impegno di ciascun membro del team medico che fa del proprio meglio per curare tutti, per confortare chi ha visto la morte con gli occhi e reca testimonianza delle violenze sul proprio corpo. Mi ricordo dell’affettuoso legame che si è creato con Jhuma, madre di sette figli che ha visto il marito morire davanti i suoi occhi durante un raid dei militari del Myanmar.

Jhuma ha voluto condividere con noi la sua storia e l’esodo della sua famiglia, incalzata dall’aumentare degli episodi di violenza fra stupri e villaggi interamente rasi al suolo dopo una costante escalation negli ultimi 8 anni. Ci racconta che prima le loro condizioni di vita in Myanmar erano accettabili, la povertà non era estrema e si riusciva a sopravvivere decentemente, nonostante la condizione di minoranza apolide musulmana. Poi, tutto ha iniziato a cambiare fin quando rimanere è divenuto impossibile e scappare in cerca di salvezza è rimasta l’unica opzione. “Noi valiamo meno degli animali”, ci spiega quando le chiediamo cosa pensi della possibilità di rientrare dal Bangladesh in Myanmar sulla base di potenziali accordi fra i due paesi. “Tornerò solo se ci saranno delle organizzazioni umanitarie a difesa dei diritti umani”.

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Una famiglia riceve cure mediche presso una delle nostre MOAS Aid Station

Queste cose Jhuma le dice con estrema consapevolezza e dignità, nonostante le condizioni intorno a noi siano estremamente difficili da accettare alla luce della continua crescita dei campi e degli insediamenti informali. Mi rendo conto che, ancora una volta, al di là di ogni crisi e del tumulto che genera, nel Mediterraneo o in Bangladesh fra gli insediamenti Rohingya, l’aspetto più importante è la dimensione umana. Il legame che si crea con le persone è quanto di più prezioso rimanga dopo ogni incontro.

Per questo, sono felice che le nostre due cliniche a Unchiprang e Shamlapur siano diventate un punto di riferimento per i rifugiati Rohingya in questi campi e alcune emergenze locali e che il loro valore vada oltre l’aiuto medico, garantendo una dimensione umana tramite l’ascolto, il conforto e la cura.

Oltre alle 21mila persone già visitate dal 14 Ottobre fra Shamlapur e Unchiprang, desidero infatti ricordare tutte quelle che ci sono venute a trovare solo per ricevere un sorriso, per stare all’ombra sedute su una sedia, per usufruire dei servizi igienici e dell’acqua potabile che trovano nelle nostre strutture, per lavarsi correttamente le mani, per ritrovare la serenità e la pace che avevano perso dopo la fuga.

E così, come la Phoenix è stata un’àncora di speranza nel mare dell’indifferenza dove le persone annegavano in silenzio, le nostre MOAS Aid Station sono divenute delle oasi di dignità nel mezzo di una spaventosa crisi umanitaria che siamo tutti chiamati ad arginare il prima possibile.

Our Aid Station a Unchiprang