Il 14 Aprile 2014 il gruppo terroristico nigeriano Boko Haram rapì 276 studentesse, per lo più fra i 16 e i 18 anni, che frequentavano un istituto scolastico gestito dal governo nella città di Chibok. Il rapimento provocò l’indignazione della comunità internazionale che si mobilitò ad ogni livello con la campagna #BringBackOurGirls e da quel momento si sono susseguiti i negoziati per la loro liberazione. Attualmente si stima che circa 113 ragazze siano ancora tenute in ostaggio.

Il gruppo rilasciato lo scorso Maggio era composto da 82 ragazze che finalmente potranno tornare dai propri cari. Alcune di loro sono ritornate con i figli nati dalle violenze subite durante la cattività o frutto dei cosiddetti “matrimoni” che le legano ai loro carnefici.

Altre portano ferite invisibili la cui profondità forse non conosceremo mai.

Le sopravvissute hanno raccontato che alcune ragazze rapite avrebbero rifiutato l’offerta di essere rimesse in libertà, preferendo rimanere coi miliziani. Questo rifiuto di tornare ad una vita normale mi fa inorridire quanto il rapimento stesso perché indica con chiarezza il deserto lasciato dalle violenze nel cuore di queste giovani donne, ormai incapaci anche di concepire l’idea stessa di libertà.

Pertanto, al di là dell’immensa gioia per il ritorno di chi ha potuto salvarsi, non dobbiamo dimenticare il clima che trovano ad accoglierle: le vittime di Boko Haram dopo la liberazione hanno davanti un futuro incerto e difficile.

Traumatizzate e ferite fisicamente oltre che emotivamente, non solo spesso non ricevono adeguato sostegno per superare l’orrore vissuto, ma diventano nuovamente vittime: questa volta di pregiudizi e emarginazione.

Come riportato in varie occasioni e documentato da fotoreporter di calibro internazionale, le vittime non smettono di essere tali nemmeno dopo la liberazione: la comunità che le accoglie di fatto continua a stigmatizzarle, marginalizzarle e guardarle con sospetto per via del loro trascorso nelle mani dei miliziani. Tante sono costrette a mentire sui propri figli o sulla loro provenienza per paura di essere allontanate anche dai campi profughi dove cercano rifugio.

Boko Haram è noto per usare le proprie vittime come kamikaze in attacchi suicidi, principalmente donne e bambini, e nessuno è in grado di prevedere il grado di radicalizzazione di chi viene costantemente indottrinato secondo la logica perversa dei terroristi.

Inoltre, queste ragazze continueranno a rivivere l’orrore nella memoria e a coltivare un intollerabile senso di colpa per le azioni che sono state costrette a compiere.

In tante raccontano, infatti, di essere state istruite per accompagnare i miliziani durante le operazioni e adescare altre donne da mettere al loro servizio.

Durante le missioni MOAS, abbiamo tratto in salvo moltissime ragazze provenienti dalla Nigeria che ci ha raccontato la propria tragica storia di fame, violenza ed estrema povertà.

Una di queste si chiama Serenity (in foto), ha 23 anni ed ha lasciato il proprio paese dopo aver perso ogni cosa in un incendio, compresi tutti i membri della sua famiglia. Tratta in salvo dall’equipaggio MOAS e trasferita a bordo della Responder nel Novembre 2016, Serenity ha raccontato il suo viaggio attraverso il deserto per giungere in Libia e ha detto di essere grata per il fatto stesso di essere viva. Il suo sogno per il futuro è uno: essere al sicuro.

In definitiva, la vicenda che riguarda le studentesse di Chibok, rapite a scuola dove cercavano di costruirsi un futuro e dove avrebbero dovuto essere al sicuro, è un ottimo spunto per riflettere sui danni dovuti alla violenza e alla marginalizzazione.

La violenza genera solo ulteriore violenza in una spirale senza fine che si allarga a macchia d’olio, come dimostrato non solo dalla Nigeria ma da molte regioni del nostro pianeta dove i conflitti si propagano a velocità allarmante contando proprio sul terreno fertile creato dalla marginalizzazione. Quella stessa marginalizzazione, ad ogni latitudine, permette all’odio di proliferare e rende fragile la nostra comunità umana che, invece di allargare le braccia per accogliere, si trincera nel rifiuto del fratello o della sorella che soffre.

*Il nome della ragazza è stato modificato

[donate_button_blog]

On April 14th 2014, the terrorist group Boko Haram abducted 276 girls – mainly aged between 16 and 18 – who studied in a school run by the government in Chibok. Their kidnapping caused global outrage and the international community reacted at all levels with the campaign #BringBackOurGirls. Since then there have been negotiations to free them. The current figures state that around 113 girls are still held captive.

In May this year a group of 82 girls were released and they can finally go back home to their loved ones. Some of them are returning with children born from the violence suffered, or after the so-called “marriages” binding them to their kidnappers.

Some have invisible wounds whose depth will remain unknown to us.

Survivors state that some girls would have refused to be free and preferred to stay with Boko Haram fighters. To me their refusal to go back to a normal life is as horrific as the abduction itself, since it bears clear evidence of the desert left in the hearts of these young women, who are unable even to conceive freedom.

So, despite the joy for those who are safe now, we should not forget the challenges awaiting them. After their release, Boko Haram’s victims face a difficult and uncertain future.

After experiencing trauma as well as physical and emotional wounds, not only do they often not receive adequate support to overcome their awful experiences, but they become victims again. This time, they are victims of prejudice and marginalization.

As stated on different occasions and documented by international photoreporters, victims will remain victims even after their release. The host community will treat them with stigma and suspicion due to their past with the fighters. Many are forced to lie about their children and where they come from, fearing rejection from the camps where they seek refuge.

Boko Haram is known for using its victims -mainly women and children- for suicide attacks, and nobody can predict the degree of radicalization of an individual who is constantly brain-washed by terrorists.

Moreover, these girls will be tormented by their memories and feel guilty for the actions that they were forced to carry out. Many say that they were given instructions to follow fighters during operations and capture other women for them.

During MOAS’ missions we have rescued a huge number of girls coming from Nigeria and they told us their tragic story of hunger, violence and extreme poverty.

Among them was Serenity (see picture) who is 23 and left her homeland after losing everything in a fire, including all her family members. After being rescued by the MOAS crew in November 2016, Serenity told us about the desert crossing to reach Libya and that she was grateful to be alive. She has one dream for the future: being safe.

In the end, the story of Chibok students abducted at school while trying to build their future, and where they should have been safe, prompts us to reflect on the damage caused by violence and marginalization.

Violence only creates further violence in a never-ending process, as proved not only by Nigeria, but also by the many regions in the world where conflict spreads at an alarming rate due to the fertile ground created by marginalization. All over the world the same marginalization allows hatred to thrive and makes our human community fragile as we reject our brothers and sisters who suffer, instead of opening up our arms to welcome them.

*The girl’s name has been changed