“Nella Giornata Internazionale dei Migranti rendiamo omaggio ai contributi e alla vitalità dei 258milioni di migranti di tutto il mondo”. Comincia così il messaggio del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che ci tiene a ricordare due punti fondamentali per una discussione lucida e onesta sul fenomeno migratorio globale che sta connotando la nostra epoca: gli indiscussi benefici economici, sociali e culturali generati dalla presenza dei migranti. Lo stesso giorno, Swing -Direttore Generale di OIM- ha sottolineato che viviamo in un mondo in cui solo “una élite privilegiata” può spostarsi liberamente e in modo sicuro.

Rispetto al secondo punto, le sue mortali conseguenze sono evidenti agli occhi di tutti e da anni le evidenziamo con MOAS: una fetta sempre più ristretta della popolazione mondiale può viaggiare e spostarsi da un luogo all’altro, mentre chi fugge da conflitti, violenze e persecuzioni deve farlo affidandosi a trafficanti senza scrupoli. Sono proprio i trafficanti a beneficiare delle lacune normative e istituzionali che condannano un numero sempre crescente di disperati a un inferno di violenze e abusi, nonostante la protezione garantita dal Diritto Internazionale che spesso rimane pura teoria.

Guterres non è il solo a sottolineare l’urgenza di un cambiamento nella narrativa ufficiale riguardo le migrazioni che troppo spesso si concentra solo sugli aspetti negativi delle stesse, senza metterne invece in risalto la dimensione positiva. Essendo stata in prima linea sul fronte migratorio negli ultimi tre anni insieme a MOAS, prima nel Mediterraneo e nell’Egeo, poi in Sud-Est asiatico, ho visto coi miei occhi le atroci conseguenze della miopia politico-istituzionale che pensa di risolvere le migrazioni negandone l’esistenza o affrontandole con un perenne approccio emergenziale. Durante le missioni SAR, ho navigato nel poliedrico mare delle emozioni insieme a chi veniva salvato per un soffio, a chi perdeva un figlio o un marito, a chi aveva visto un amico o un fratello scivolargli fra le mani nel buio sotto di loro. In mare ho condiviso lacrime di gioia e di dolore, di speranza e sollievo, di paura e felicità. Ma soprattutto, ascoltando le storie dei nostri ospiti appena tratti in salvo, ho potuto constatare la loro determinazione a riscattare il dolore e la fuga da un paese dove per motivi diversi non potevano più rimanere. Ho incontrato ingegneri, medici, avvocati, insegnanti, artigiani, meccanici, cantanti, parrucchiere, estetiste o donne che si sono sempre occupate della famiglia. Ciascuno di loro era intenzionato a offrire competenze e capacità al paese che l’avrebbe accolto. Di certo, nessuno avrebbe immaginato di essere visto come un peso o un problema, né che la guerra avrebbe tolto loro anche la possibilità di costruirsi un futuro dignitoso.

L’abbraccio con una madre Rohingya durante la mia prima permanenza in Bangladesh

Anche il Papa ha spesso richiamato l’attenzione sui migranti che, vittime di violazioni indescrivibili, andrebbero accolti e supportati nel processo di ricostruzione di una nuova vita all’interno di una comunità che grazie a loro diventerebbe più ricca. Proprio al suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, all’inizio di questo nuovo anno, dovremmo pensare ogni volta che la retorica anti-migranti fa vacillare la convinzione della necessità di accogliere queste persone in fuga. Dovremmo, infatti, ricordarci che la pace è un diritto di tutti, ma per alcuni può essere scontata, mentre per altri è un sogno o un desiderio per cui sono disposti a rischiare la vita stessa in viaggi lunghi e pericolosi.

Il mio augurio per l’anno appena iniziato è che sia un anno di pace, di accoglienza, di fratellanza e soprattutto di speranza in cui riscoprire la gioia dell’incontro con l’altro e restituire dignità ad ogni essere umano che dentro di sé custodisce sempre un po’ del sale divino.

La dignità non ha nazionalità.