“Fondamentalmente la povertà è la mancanza di scelte e opportunità, una violazione della dignità umana. Significa la mancanza delle basilari capacità di effettiva partecipazione alla società. Significa non avere cibo sufficiente a nutrire e vestire una famiglia, non avere una scuola o una clinica, non avere una terra in cui coltivare del cibo o un lavoro con cui mantenersi, non avere accesso al credito. Significa insicurezza, impotenza ed esclusione di individui, famiglie e comunità. Significa esposizione alla violenza e spesso implica vivere ai margini o in ambienti fragili, senza accesso all’acqua pulita o servizi igienici”
(UN Statement, Giugno 1998 – firmato dai vertici di tutte le agenzie UN)
La migrazione fa parte della storia umana da secoli.
Oltre a guerre, conflitti e persecuzioni la migrazione può anche essere dovuta alla povertà. La povertà può essere letale quanto un’arma quando nega alle persone ogni mezzo di sostentamento e impedisce di accedere ai servizi sanitari di base e all’istruzione.
La nozione di povertà è controversa e sembra complicato trovare una definizione comune, ma in generale si concorda sulle conseguenze negative che ha sulla società, soprattutto quando colpisce le comunità più vulnerabili.
A mio avviso c’è una connessione fra povertà esterna ed interna. Quella esterna indica mancanza di risorse economiche ed è profondamente legata a quella interna. Con povertà interna mi riferisco a chi è costretto a sopravvivere giornalmente e non ha la possibilità di andare a scuola, di migliorarsi e perseguire i propri sogni. Quando le autorità ufficiali non riescono a rispondere in maniera efficace a questa mancanza di opportunità e alla stagnazione dell’economia, la migrazione viene vista come un modo per migliorare la propria vita perché -come fa un buon imprenditore- si crede nel potere dei propri sogni.
Nel 2015, Philippe Douste-Blazy, Sottosegretario delle NU, ha spiegato che le diseguaglianze economiche spingevano le persone ad abbandonare le proprie case tanto quanto la guerra. Alla luce di questa considerazione l’unico modo per interrompere il ciclo negativo è agire al più presto per eliminare quei fattori che provocano la povertà o quantomeno attenuarli.
Costruire muri e recinzioni o respingere le persone non è una soluzione.
La povertà comporta scarsità di risorse alimentari e servizi igienici e denota mancanza di opportunità per accedere all’istruzione e al mercato del lavoro. Per questo motivo non c’è da sorprendersi che le persone non possano migliorare le proprie condizioni di vita e siano costrette ad abbandonare la propria casa. Spesso non vorrebbero farlo, ma se una famiglia non può provvedere alle spese di base per i propri figli non rimane scelta.
Una simile mancanza di scelte ed opportunità può prescindere dalle intenzioni e dalla volontà degli stati. Tuttavia, in alcuni paesi, le politiche del governo possono contribuire attivamente a creare situazioni di povertà interna ed esterna.
Un esempio evidente è costituito dai migranti in fuga dall’Eritrea dove i cittadini sono costretti a una forma di coscrizione obbligatoria senza fine e a subire molti abusi dei diritti umani. Questo significa che vivono situazioni di povertà interna ed esterna. Di conseguenza, in molti abbandonano l’Eritrea per sottrarsi a una delle dittature più inaccessibili al mondo. Spesso però migrare espone a ulteriori violenze ed abusi sia durante il viaggio che in alcuni paesi che accolgono i migranti.
Povertà e coscrizione in Eritrea
Gli Eritrei rappresentano una grossa fetta di migranti che attraversano il Mediterraneo e chiedono asilo in Europa con una proporzione anche più alta dei Siriani costretti a fuggire dalla guerra civile in corso.
In una relazione curata dalle Nazioni Unite nel 2015 si affermava che “Gli Eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura”.
Il governo eritreo viene descritto come uno stato totalitario che impedisce alle persone di avere una vita normale: le persone sono soggette a monitoraggio costante tramite un apparato che penetra ad ogni livello della società e sono esposte a gravi violazioni dei diritti umani. Inoltre, “il godimento dei diritti e delle libertà risulta gravemente compromesso da un generale contesto di totale assenza dello stato di diritto”.
Un punto fondamentale riguarda la leva militare obbligatoria. La leva obbligatoria si applica a chiunque in Eritrea e non si può mai sapere quanto durerà. Include anche lavori forzati e violenze (compresa la violenza sessuale) che possono essere considerati crimini contro l’umanità.
Nel corso degli anni mi sono potuta confrontare sul tema con Alganesc Fessaha, fondatrice e direttrice di Gandhi Charity, per capire come la politica e la leva obbligatoria influenzino l’economia eritrea e costringano le persone a fuggire per evitare di subire violenze, abusi e povertà estrema. Alganesc Fessaha ha spiegato la correlazione con le realtà sovra-citate e descritto le conseguenze negative dell’uso della forza lavoro per fini militari o per compiacere chi detiene il potere. Questo atteggiamento diffuso conduce a condizioni simili alla schiavitù che peggiorano un ambiente economico fragile.
“In questo contesto i lavori forzati costituiscono una pratica simile alla schiavitù in merito ai suoi effetti e sono pertanto proibiti dal diritto internazionale in materia di diritti umani”, chiarisce la relazione delle Nazioni Unite.
Manca la possibilità di esprimere il proprio talento e migliorarsi visto che le persone sono costantemente oppresse e utilizzate per lavorare su progetti specifici volti a soddisfare le esigenze personali degli ufficiali militari più che la comunità in senso ampio. Non hanno potere decisionale né controllo sulla propria vita e sono incapaci di mantenere se stessi o le proprie famiglie. Possono solo abbandonare il paese.
Alganesc Fessaha ha partecipato all’ultima edizione di XChange Forum 2017 durante cui ha spiegato chiaramente cosa succede agli Eritrei in fuga e privi di strumenti legali e sicuri. La terribile realtà che li aspetta è un susseguirsi di abusi, torture e violenze che a volte si concludono con la loro morte. Gli Eritrei vengono spesso arrestati come migranti illegali e rapiti per avere un riscatto appena superato il confine. Se il riscatto non arriva, possono essere picchiati fino alla morte o sfruttati per il trapianto d’organi.
Siamo entrambe convinte che la soluzione a lungo termine si basi su un dialogo aperto investendo nelle economie locali e migliorando le condizioni di vita in loco. In paesi come l’Eritrea, dove i governi creano situazioni di povertà esterna ed interna, dobbiamo chiedere che venga rispettata la dignità umana -come stabilito dalla dichiarazione delle Nazioni Unite- e far sì che i cittadini possano decidere della propria vita. Solo così potremo evitare la povertà e questi viaggi letali.
Attualmente una soluzione praticabile è l’apertura di corridoi umanitari per consentire ad un gruppo di potenziali candidati di arrivare legalmente nel paese che li accoglie e smantellare le reti dei trafficanti.
Per saperne di più sulla leva obbligatoria come fattore che provoca la migrazione forzata clicca qui
This article was originally written in English for our MOAS website