L’arte è buona quando muove dalla necessità; questo tipo di origine ne garantisce il valore, e nient’altro

(Neal Cassady)

Penso a queste parole mentre osservo sullo schermo le immagini del film documentario realizzato dall’artista cinese Ai Weiwei, proiettato in occasione dell’evento organizzato da 6Degrees in Canada. Human Flow esplora in profondità cosa voglia dire diventare un rifugiato, uno sfollato, una persona costretta contro la propria volontà a lasciare il proprio paese spesso senza nemmeno essere sicura di poterci ritornare.

Con MOAS abbiamo toccato con mano le conseguenze di un fenomeno che coinvolge un numero drammaticamente alto ed in costante crescita di persone, osservando le immagini del documentario, mi auguro che facciano breccia nei cuori degli spettatori.

Conversando con Ai Weiwei, è chiaro che, avendo vissuto in prima persona questa esperienza, sa bene cosa significhi essere uno sfollato e sottostare a rigide limitazioni della propria libertà personale. Per questo ha deciso di mettere a servizio il suo talento, la sua arte a difesa dei diritti umani. La sua arte in qualunque forma si esprima denuncia la brutalità delle violazioni dei diritti umani su individui colpevoli solo di voler vivere dignitosamente. In ogni parte del mondo un numero sempre maggiore di persone, infatti, è costretto ad abbandonare la propria vita, i propri cari e la propria sicurezza per intraprendere viaggi della speranza a rischio della vita pur di mettersi in salvo.

L’inizio del documentario si concentra sulla realtà delle coste greche prima dell’accordo UE-Turchia che ha notevolmente ridotto i flussi sulla rotta dell’Egeo dove con MOAS siamo intervenuti posizionando una seconda nave fin quando è stato necessario. Ma L’Europa, il Mediterraneo e l’Egeo non sono l’unica parte del mondo che viene documentata perché si spazia sia geograficamente che concettualmente.

Importanti sono le riflessioni su cosa significhi continuare a non intervenire adeguatamente sulle cause di una crisi umanitaria senza precedenti e su come isolamento, marginalizzazione, esclusione creino il terreno fertile per ulteriori divisioni. Costringere milioni di persone a vivere in una situazione di estrema precarietà senza poter accedere al sistema scolastico o sanitario, né al mercato del lavoro le priva della prospettiva del futuro. Per chi è costretto a migrare oggi lasciare il proprio paese è spesso la condanna ad una limbo di precarietà e burocrazia cui non si sa porre rimedio perché né le convenzioni né gli accordi internazionali a tutela dei diritti umani sembrano essere validi strumenti.

Con MOAS abbiamo spesso sottolineato l’impatto dei viaggi infernali sulla salute mentale di chi deve affrontarli, abbiamo raccontato il diritto alla salute negato e il sogno di un’istruzione che spesso si scontra con una dura burocrazia che esclude invece di coinvolgere. Abbiamo anche denunciato i pericoli della tratta, le cui vittime sono spesso donne o minori vulnerabili e bisognosi di protezione.

Avendo trascorso gli ultimi tre anni in prima linea fra il Mediterraneo e l’Egeo per evitare inutili morti in mare e ridare speranza a chi stava per morire, abbiamo raccontato le atroci condizioni in cui sono costrette a viaggiare queste persone insieme ai loro sogni e le loro speranze. Abbiamo cercato di preservare la dimensione umana, così spesso dimenticata quando si parla di numeri e statistiche sul fenomeno migratorio proprio per creare empatia. Così come Ai Weiwei cammina coi flussi di migranti in movimento fra le varie frontiere del mondo, anche MOAS continua a stare al fianco dei fratelli e delle sorelle ingiustamente costretti a scappare usando mezzi rischiosi.

Con questo spirito di testimonianza diretta e l’intento di assistere i gruppi più vulnerabili, durante la 3 giorni di 6Degrees ho presentato la nuova missione in Bangladesh dove stiamo portando aiuti alimentari ed assistenza medico-sanitaria d’emergenza. A Shamlapur abbiamo appena inaugurato la prima MOAS Aid Station: un’unità medica in grado di prestare assistenza tramite la sua struttura satellite semi-permanente completamente attrezzata dal punto di vista medico oltre a acqua e servizi igienici. Questa struttura, inaugurata il 14 ottobre, dovrebbe fare da prototipo per creare ulteriori unità sparse sul territorio e aumentare la nostra capacità di prestare soccorso a chi più ne ha bisogno.

MOAS Italia Copyright 2017 Rohingya in fila in attesa di essere visitati nella nostra prima MOAS Aid Station inaugurata il 14 ottobre a Shamlapur in Bangladesh per fornire assistenza medica sia agli abitanti del campo che alla locale comunità bengalese

Essere rifugiato è più di uno status politico. Si tratta dell’atto più crudele che possa essere commesso nei confronti di un essere umano” tratto dal film documentario Human Flow di Ai Weiwei