Sabato 21Ottobre 2017 ho partecipato al Festival della Migrazione svoltosi a Modena nel panel “Oltre il mare, riflessione sulle due sponde” moderato da Gianfranco Zanetti (CRID-UNIMORE) con l’introduzione di Maria Elisabetta Vandalli (IntegriaMO) insieme a Marco Bertotto (Medici Senza Frontiere), Gianfranco Schiavone (Asgi), Elena Ethel Schlein (Europarlamentare) e Gianpaolo Musumeci (giornalista).

Il Festival della Migrazione è stato un’occasione importante per discutere l’attuale situazione nel Mar Mediterraneo e in Libia. Proprio questo paese infatti da anni è al centro del dibattito sulle migrazioni in quanto snodo cruciale dei traffici dei mercanti di morte che, forti della mancanza di alternative sicure e legali, sfruttano la disperazione di chi fugge da guerra, persecuzioni e povertà estrema alla ricerca di un futuro migliore.

Citando l’europarlamentare Schlein, “È ipocrita parlare di immigrazione irregolare quando è impossibile arrivare legalmente in Europa”. Proprio il vuoto lasciato dalla politica, incapace di trovare soluzioni coerenti a breve e lungo termine, ha consentito il proliferare delle reti criminali che si sono radicate nei paesi di origine e transito dei migranti. Come rappresentante MOAS, prima organizzazione umanitaria in mare sin dal 2014, ho testimoniato l’escalation di orrori e violenze cui abbiamo assistito con l’equipaggio SAR e i team di post-soccorso: imbarcazioni sempre più fatiscenti e stracolme che a volte venivano inghiottite dal mare senza nemmeno essere avvistate, corpi segnati dalla violenza fisica ma anche psicologica, donne e ragazze giovanissime vittime di tratta.

Con MOAS abbiamo vissuto in mare l’evoluzione dei flussi migratori dal 2014 ad oggi ed il cambiamento di approccio nella gestione degli stessi flussi che ha smesso di avere come priorità quella di salvare vite umane in pericolo per concentrarsi sulla difesa delle frontiere ad ogni costo.

Anche le frontiere liquide del mare sono diventate muri che respingono e allontanano dai nostri occhi la sofferenza di migliaia di persone costrette nell’inferno libico senza alcuna via d’uscita.

Proprio alla luce di questo mutato approccio alla fine dello scorso Agosto abbiamo deciso di sospendere la nostra missione SAR nel Mediterraneo Centrale: come organizzazione umanitaria fondata per alleviare la sofferenza umana, non possiamo accettare in buona coscienza di coordinarci con la Guardia Costiera Libica e rischiare di dover consegnare a questa le persone tratte in salvo. Non possiamo, infatti, riconoscere la Libia come porto sicuro. Sono troppe le testimonianze che abbiamo ascoltato in merito agli abusi commessi nei centri di detenzione dove le persone verrebbero nuovamente riportate senza alcuna garanzia di salvaguardia dei diritti umani. La Libia è inoltre un paese segnato da anni di conflitti e protratta instabilità che rendono impossibile dialogare e negoziare per tutelare chi si trova al suo interno. Infine, va ricordato che la Libia non ha mai siglato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati che è la pietra miliare per la definizione dello status stesso di rifugiato e dei diritti che ne derivano con le rispettive garanzie.

Un campo improvvisato che ospita molti Rohingya in fuga dal Myanmar per riparare in Bangladesh dove MOAS sta lavorando per portare assistenza medica ed aiuti umanitari. Questa foto è stata scattata da XChange, organizzazione sorella del MOAS, che ha diffuso un primo report sulle condizioni di vita dei Rohingya in seguito ad una visita sul campo nel 2015. Per saperne di più clicca qui

MOAS in questo clima di insicurezza non ha voluto diventare parte di un meccanismo che mira solo a evitare che le persone arrivino sulle nostre coste europee senza alcuna considerazione per il loro destino e per il rispetto dei loro diritti umani fondamentali. Come ricordato da Marco Bertotto: “In realtà stiamo soltanto esternalizzando la sofferenza. È così che a naufragare sono i nostri principi”.

Ma non abbiamo voluto arrenderci e abbiamo ancora una volta accolto l’appello di Papa Francesco a non dimenticare la sofferenza dei nostri fratelli e sorelle più vulnerabili.

Per questo da Settembre 2017 abbiamo riposizionato la Phoenix, divenuta ormai un simbolo di speranza, nel Sud-Est Asiatico per portare assistenza medica e aiuti umanitari alla comunità Rohingya in fuga dal Myanmar per cercare riparo in Bangladesh.

Dal 25 Agosto almeno 600mila Rohingya hanno attraversato la frontiera col Bangladesh di cui 340mila bambini, aggravando la già precaria situazione di un paese povero e spesso colpito da catastrofi naturali. Con MOAS abbiamo constatato in prima linea l’aumento esponenziale di persone in arrivo dal Bangladesh tramite le mortali rotte dei trafficanti proprio perché il paese si trova già in condizioni estremamente difficili. Proprio per questo le nostre MOAS Aid Station porteranno assistenza medica e aiuti umanitari non solo ai rifugiati Rohingya nel paese, ma anche alle comunità locali che hanno dimostrato grande solidarietà e umanità aprendo le frontiere e il proprio cuore a questa minoranza in fuga. La prima Aid Station inaugurata il 14 Ottobre farà da prototipo per altre già pianificate a Unchiprang, Kutupalong e Balukhali le cui strutture verranno calibrate in base alle esigenze specifiche dei singoli campi.

 

Bambini conosciuti durante la mia permanenza in Bangladesh per supervisionare gli sviluppi della missione MOAS

 

Questa volta è davvero il caso di dirlo: Aiutiamoli a casa loro prima che questa crisi umanitaria si trasformi in una vera e propria catastrofe i cui soli beneficiari saranno ancora una volta i mercanti di morte. Questo esodo di massa dal Myanmar al Bangladesh va infatti a colpire una comunità già di suo stremata da povertà e cambiamento climatico. Negli ultimi anni sono stati in notevole aumenti i flussi di persone provenienti dal Bangladesh in cerca di condizioni di vita migliori e opportunità lavorative, come abbiamo constatato in prima persona noi del MOAS durante le scorse missioni SAR.

Solidarietà, fratellanza e misericordia non hanno barriere e dobbiamo costantemente impegnarci a difendere i diritti e la dignità umana dalle violazioni, ovunque esse si verifichino.