Nel cuore del Mediterraneo, dove le culture si incontrano e le storie si intrecciano profondamente, il conflitto israelo-palestinese rimane una delle ferite più dolorose e persistenti del nostro tempo. Come operatrice umanitaria che ha lavorato per oltre un decennio in contesti di migrazione e crisi, ho visto il devastante costo umano dei conflitti irrisolti: famiglie distrutte, futuri tenuti in ostaggio, e la dignità troppo spesso negata.

Eppure, in mezzo alla disperazione, ho anche incontrato il coraggio. Anni fa, durante un dialogo per la pace, ho visitato Neve Shalom, un villaggio fondato da Padre Bruno Hussar, sacerdote domenicano nato in Egitto da genitori ebrei. Ispirato dalla propria identità così ricca e variegata, immaginò uno spazio dove palestinesi ed ebrei potessero vivere insieme da eguali. Quello che ho visto lì è rimasto impresso nel mio cuore.

In questa piccola comunità collinare tra Tel Aviv e Gerusalemme, palestinesi e israeliani vivono fianco a fianco, non separati da checkpoint o muri, ma uniti da un impegno comune al dialogo. Il villaggio non ha cancelli. I bambini giocano insieme negli stessi cortili. I genitori mandano i loro figli in scuole bilingui. Le persone parlano lingue diverse, portano storie diverse, ma scelgono comunque di percorrere un cammino comune. Naturalmente esistono tensioni, come in ogni comunità, ma ciò che conta è l’intenzione: costruire insieme un futuro libero dalla paura, dall’odio e dall’oppressione.

Ho visitato anche il centro dedicato all’eredità di Padre Bruno. La sua visione non era politica, ma profondamente umana. Credeva che la pace iniziasse dalle persone, dall’educazione, dai gesti quotidiani di ascolto. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di tanti esempi come il suo, di costruttori di ponti, capaci di andare oltre il conflitto e di scegliere la compassione. Fuori da quel centro, mi colpì profondamente un oggetto: una piccola bomba, vecchia e disinnescata, riutilizzata come vaso per una pianta verde e fiorita. Quello che era stato uno strumento di distruzione era diventato simbolo di speranza e rinascita. Quell’immagine mi accompagna ancora oggi, un silenzioso promemoria che persino gli strumenti di guerra possono essere trasformati in vita, se lo vogliamo. Questo ricordo è diventato ancora più potente alla luce dell’ultima escalation nella regione.

Il 7 ottobre ha segnato un punto di svolta, riaprendo ferite profonde e generando ulteriore sofferenza. Israele, a lungo considerato un faro di resilienza democratica, si trova ora al centro di crescenti critiche internazionali per la sua campagna militare a Gaza. Il bilancio delle vittime è sconvolgente e la crisi umanitaria si aggrava. Nel frattempo, i palestinesi restano senza uno Stato sovrano, in una condizione di occupazione e paralisi politica. L’estremismo prospera dove dignità e opportunità sono negate. Nel mio percorso di vita ho incontrato tantissimi rifugiati, madri, studenti e leader civici, da entrambe le parti, che non desiderano vendetta, ma pace. Le loro storie riempiono il mio cuore e il mio libro. I loro sogni parlano di sicurezza, del desiderio di crescere i propri figli senza paura, di costruire. Queste sono le voci che troppo spesso restano inascoltate, voci moderate e pragmatiche intrappolate tra estremismi politici. Ma sono loro la chiave del futuro.

Come imprenditrice e fondatrice di alcune ONG, tra cui il Mediterranean Aid Education Centre (MAEC), ho sempre creduto che l’aiuto umanitario debba andare oltre la sopravvivenza. Deve promuovere l’educazione, il dialogo, la speranza. Quello che ho visto a Neve Shalom non era solo coesistenza: era un’educazione all’empatia. La pace non può essere imposta dall’alto. Deve essere coltivata dal basso, nelle case, nelle scuole, nel coraggio silenzioso di chi si rifiuta di arrendersi all’odio reciproco.

Perché la pace abbia una possibilità, sia Israele che la Palestina devono guardare dentro se stessi, oltre che l’uno verso l’altro. All’interno di Israele, le fratture si approfondiscono: tra laici e religiosi, tra moderati e ultranazionalisti. Le proteste sulle riforme giudiziarie e le decisioni militari sono segni di una società che lotta con la propria identità. La sopravvivenza non può basarsi solo sulla forza militare. Deve poggiare anche sulla forza morale. Dalla parte palestinese, deve esserci spazio per leader che promuovano la coesistenza e rifiutino la violenza, che costruiscano scuole e comunità nonostante le avversità.

Queste voci hanno bisogno di sostegno internazionale. Devono essere valorizzate, non ignorate. Il cammino davanti a noi richiederà compromessi dolorosi. Ma l’alternativa, una guerra infinita e un trauma generazionale, è molto più pericolosa. Dobbiamo rifiutare l’idea che il compromesso sia debolezza, o che la critica sia tradimento. Questo tipo di pensiero porta solo a più muri, più paura, più sofferenza.

Come imprenditrice e operatrice umanitaria, faccio appello a un rinnovato impegno per una pace giusta e duratura, basata sulla soluzione dei due Stati: una Palestina sovrana accanto a un Israele sicuro e democratico. Questa visione non è ingenua, è necessaria. Riconosce la dignità di entrambi i popoli e offre un futuro fondato sul riconoscimento reciproco, non sulla prevaricazione di una parte sull’altra. Sulle colline di Neve Shalom, ho visto come potrebbe essere quel futuro: un luogo dove ai bambini non viene insegnato a temere l’altro, ma a conoscerlo. Un luogo senza cancelli, dove la fiamma della speranza arde ancora nei cuori dei genitori determinati a trasmettere la pace ai propri figli. Questa visione è ancora possibile. Ma deve essere scelta, insieme e con determinazione.

Sosteniamo le voci di chi costruisce, non di chi distrugge. Educhiamo alla coesistenza, non al conflitto. Ricordiamo che la vera pace non nasce dalla politica, ma dall’atto semplice e al tempo stesso radicale di riconoscere l’altro.