
Ciao Michela,
per tanto tempo ci siamo rincorse. Abbiamo provato a incontrarci di presenza senza mai riuscirci. È con grande rammarico che oggi ti mando il mio saluto per quella stretta di mano che avrebbe potuto esserci ma che non è mai avvenuta.
Ti ho conosciuta con Accabadora, un libro che ho letto e riletto e che consiglierei a tutti, che tanto mi ha insegnato in merito alla tradizione del matriarcato sardo, che mi ha trasmesso misericordia, lotta e coraggio e nella quale ti ho rivista molto.
Quello stesso coraggio che hai trasmesso a tutti noi con le tue denunce civili per i diritti delle donne, delle persone queer, dei migranti al confine di Ventimiglia, di tutti gli esclusi dai diritti.
Con la stessa forza, lo stesso coraggio e tanta semplicità hai affrontato gli ultimi mesi di malattia, parlando di questioni che sono considerate ancora un tabù e che troppo spesso non possono essere toccate, dalle più impegnative alle più superficiali, ma non per questo meno degne di essere citate. Come l’aver sfondato il muro che c’è tra il battersi per i diritti degli altri e il tipo di abbigliamento che si indossa o i posti che si frequentano, i giudizi e lo snobismo che si annidano sulla superficialità dell’apparenza e non delle azioni compiute. Hai messo bene in rilievo come si possa salvare il mondo ed essere ricordati per come si è vestiti, soprattutto se sei una donna. Ti ho sentita molto vicina, come una sorella, per il modo diretto e semplice in cui ti sei aperta.
La tua lotta tra la vita e la morte ha più volte richiamato alla mia memoria quel limbo e quella “corsa per la vita” che ho visto ad ogni missione negli occhi dello staff MOAS e delle persone salvate, da quando nel Mediterraneo tendevamo la mano alle persone migranti che stavano per annegare a quando curavamo i rifugiati Rohingya nelle stazioni di primo soccorso. Lo stesso coraggio che vedo mentre consegniamo ai bambini malnutriti dello Yemen e della Somalia cibo e farmaci mentre sono in bilico tra vivere e morire. E quella dei medici, degli infermieri e degli autisti che a bordo delle ambulanze, in Ucraina, conducono una battaglia contro il tempo per curare e salvare civili e militari gravemente feriti a causa di questa guerra folle strappandoli alla morte. Vite che tu avresti saputo narrare con la tua consueta sensibilità se avessi potuto guardare con i tuoi occhi quello che accade dentro queste ambulanze. Avresti potuto parlarci di questi uomini che conducevano una vita normale, medici, insegnanti, avvocati, musicisti, cuochi, e che oggi sono diventati soldati che rischiano la vita per salvare la propria terra.
Auguro a tutti noi di avere lo spirito e il coraggio che tu, Michela, ci hai trasmesso, con la tua umanità e la tua forza, con impegno e determinazione, affinché ogni giorno possiamo spendere la vita credendo in un mondo migliore, lottando per ciò che non va, vivendo la lotta tra la vita e la morte come un momento di rinascita, di riflessione, di altruismo e di ringraziamento per tutto quello che ci è stato donato nella vita e per le persone che ci hanno circondato o che, seppur con un semplice incontro, ci hanno lasciato qualcosa.
Arrivederci Michela!