Rosna ha sei mesi, vive a Unchiprang con il padre di 30 e la madre di 25 anni che la accompagna presso la nostra Aid Station aperta lo scorso novembre per far fronte al continuo flusso di Rohingya in fuga dalle persecuzioni in Myanmar. La bambina ha un’infezione cutanea per cui riceve una terapia, mentre la madre risponde alle domande dei medici presenti nella struttura. I suoi racconti confermano l’orrore che tanti altri hanno vissuto e che le Nazioni Uniti e Fortify Rights hanno documentato a fondo per mettere in luce le violenze commesse dal governo birmano. La scorsa estate, infatti, sono usciti dei report che parlano chiaramente di crimini contro l’umanità, genocidio, pulizia etnica e crimini di guerra per descrivere cosa hanno patito i Rohingya già storicamente perseguitati in un paese che non li riconosce nemmeno come cittadini.
La mamma della piccola Rosna viene dalla provincia di Maungdaw, una fra le più colpite dalle violenze, come altri pazienti delle Aid Station che raccontano storie simili: bambini gettati nel fuoco, villaggi interi rasi al suolo, donne e ragazze stuprate sistematicamente, uomini e ragazzi fatti sparire e probabilmente uccisi.
Una storia simile ce la racconta Somira, una nostra paziente di 25 anni alla quale i nostri dottori diagnosticano l’ulcera peptica. Somira un giorno dello scorso agosto ha visto arrivare nel villaggio militari armati che hanno sequestrato oltre 30 uomini, malmenato e poi ucciso molti di essi, fra cui suo fratello. Di fronte a questa atrocità, accaduta davanti ai suoi occhi, non si è sentita più sicura e ha capito di dover abbandonare il paese.
Scappare non risolve il problema, soprattutto perché sono i viaggi stessi verso la salvezza a mettere in pericolo le persone. Entrambe le donne ci hanno infatti raccontato di aver intrapreso viaggi pericolosissimi.
C’è chi ha viaggiato con dei bambini piccoli terrorizzati dai rumori delle violenze, nascondendosi fra le colline prima di arrivare al confine col Bangladesh. C’è chi si è nascosto dall’esercito per due settimane senza cibo o acqua a sufficienza. C’è chi ha camminato giorni e giorni nel fango portando a spalla ceste con figli e genitori, con in mente l’immagine del proprio villaggio distrutto. Altri sono arrivati via mare su mezzi fatiscenti e in condizioni terribili. I meno fortunati erano a bordo di imbarcazioni che si sono capovolte e i loro corpi senza vita sono stati spinta a riva dalle onde.
Chi sono gli unici ad approfittarsi di questa situazione? I trafficanti, i criminali che sfruttano la vulnerabilità di chi vuole salvarsi la vita ed è disposto a qualsiasi sacrificio pur di farlo. È questo il vero, enorme problema da risolvere: la migrazione forzata non può essere fermata da un giorno all’altro, ma possiamo evitare che persone senza scrupoli ci lucrino su.
Tuttavia, la storia della mamma di Rosna non è solo una storia di abusi, di violenze e disperazione. Quando la sua famiglia è arrivata in Bangladesh, infatti, hanno trovato generosità, fratellanza e porte aperte. Per giorni sono stati ospitati in una vecchia scuola dove altre famiglie bengalesi portavano cibo, vestiti, condividendo il poco che avevano coi nuovi arrivati. Per questo siamo felici che con la missione MOAS in sud-est asiatico abbiamo curato ed assistito Rohingya e bengalesi, senza alcuna distinzione ma con l’intento di alleviare il dolore di chiunque avesse bisogno.